Funerale o no? Galeotta fu la cravatta viola di Conte

Cravatta viola, come ai funerali. Di fronte telecamere e giornalisti, gli stessi con i quali ha imparato a convivere da quando un anno fa, da uomo riservato e taciturno qual era, è passato ad indossare i panni di premier della settima economia mondiale. Quel giorno, però al Quirinale, aveva scelto una cravatta blu notte.

Negli stessi minuti, nella sua Lombardia, a Porto Mantovano, Matteo Salvini dice addio alla felpa, del resto l’estate sembra definitivamente arrivata, ed opta per una camicia bianca alla Renzi. Di fronte una folla oceanica, accorsa per vedere, o soltanto sentir parlare dal vivo, il suo idolo. Ormai c’è abituato, non sono più i tempi di Bossi, del 3%, della Padania e della droga libera.  Ora la Lega è un partito nazionale, il primo in Italia ed in Europa. Una roba impensabile qualche anno fa, ma Matteo a forza di recitare rosari è riuscito nel miracolo.

A Porto Mantovano sempre il solito copione: basta immigrati, quota 100, quota 100, basta immigrati, il tutto condito da una buona dose di dirette facebook, applausi e selfie.

Quindi torniamo a Palazzo Chigi dove accade qualcosa di davvero interessante: l’Italia intera si accorge che ha un premier, si chiama Giuseppe Conte.

L’avvocato non ci sta, e come un buon legale che si rispetti spiega le clausole del suo contratto: “non mi presto a vivacchiare, avanti o lascio.”

Parla di una fase 2 Giuseppe Conte, la più difficile e complessa: se non ha l’appoggio dei due firmatari del contratto, non ha senso andare avanti. Nemmeno può indossare i panni del maestro di scuola elementare e mettersi a sbattere il registro sul tavolo per richiamare i suoi “alunni” all’ordine.

Rivendica il suo ruolo di mediatore, super partes. Afferma di non essere mai stato iscritto al Movimento Cinque Stelle, di essersi soltanto “messo a disposizione”. Lì per lì’ sembra che anche lui come il 15% degli italiani abbia deciso di scaricare Di Maio, e indossare il braccialetto blu con la scritta “Salvini premier”.

Poi però arriva la domanda al veleno, dai microfoni di La 7, e riguarda la tanto discussa Tav. Conte inizia a giocare con i microfoni, e come un marito messo alle strette dalla moglie, non si arrampica sugli specchi, ma decide di affrontare a viso aperto la questione.

Tira ancora una volta in ballo il contratto, quello che dice essere stato il faro della sua esperienza di governo. Poi il metodo: l’analisi costi – benefici. Parla in maniera chiara Giuseppe Conte: l’analisi ha bocciato la Tav, quindi nessuno può uscirsene dicendo che si deve fare a tutti i costi. I patti vanno rispettati.

 Peppino sembra l’unico in grado di rimettere al proprio posto Salvini. Del resto ha qualche primavera in più rispetto al leader leghista. Ma quando è troppo è troppo. Ha perso la pazienza anche lui. È tentato di ricorrere a quota 100 e andare in pensione, mollando la baracca. E non ha tutti i torti perché senza quel “clima di coesione e forte condivisione”, che più volte ha richiamato nel suo discorso, è impossibile pensare di vincere le sfide che attendono il governo: prima tra tutte la procedura di infrazione.

Il suo discorso non ha fatto una piega. Lui composto, educato, corretto, fino alla fine. Conte, di nome e di fatto. E proprio mentre questo cavaliere senza macchia tirava finalmente fuori gli attributi, Salvini a Porto Mantovano parlava già da premier.

La dichiarazione ufficiale è stata: “noi siamo pronti, vogliamo andare avanti e non abbiamo tempo da perdere, la Lega c’è.”

In effetti se poi andasse veramente a fare il premier della settima potenza mondiale non avrebbe più tempo per i selfie ed una campagna elettorale martellante. Non potrebbe più avere il dono dell’ubiquità nelle piazze e sui social. Dovrebbe chiudersi in un ufficio, in mezzo alle scartoffie, e lavorare con serietà. Prendersi tutte le responsabilità di quello che accade. Non ci sarebbero più i Cinque Stelle inesperti su cui scaricare ogni inefficienza dell’apparato governativo.

Siamo sicuri che gli convenga? Siamo sicuri che Salvini voglia davvero fare il premier?

Già. Forse è meglio lasciare il difficoltoso scranno al caro buon vecchio Giuseppe. E intanto restare nelle piazze a prendersi elogi, comuni e regioni. Fare “all in”.

Del resto, si sa, le Europee segnano uno spartiacque pericoloso, non vorrà mica fare la fine di quell’altro Matteo…Renzi.

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