“Balena”, intervista a Giulia Muscatelli

Domenica 11 novembre, alle ore 13.45, in Sala Elettra, è stato presentato Balena, il romanzo d’esordio di Giulia Muscatelli, edito dalla Edizioni Nottetempo. L’autrice ne ha parlato con la scrittrice Chiara Tagliaferri. 

Per Lanterna, abbiamo intervistato l’autrice sul suo romanzo. 

Alla morte del padre, Giulia sperimenta l’assenza. Il posto a tavola del padre ora è vuoto, il lato del letto matrimoniale, nella camera dei genitori, è aperto da una voragine di lenzuolo bianco, intatto. La perdita improvvisa di un genitore è insostenibile, il vuoto che provoca è incolmabile. Tuttavia, Giulia prova a riempire quel vuoto con il suo corpo, l’unica cosa che le resta: il corpo di una bambina di undici anni che aspira, inconsciamente, a diventare gigantesco come il corpo del padre di cui ora restano solamente degli anonimi oggetti da congelare in un sacchettino di plastica. Giulia si allarga con la stessa rapidità con cui “si allarga il dolore della mancanza”. Si riempie di cibo e diventa pesante perché ormai l’uomo capace di sollevarla da terra non esiste più. Quell’uomo è morto. “Le cose mi sono accadute perché potessi rendermene conto” scrive Annie Ernaux, in L’evento – frase da te riportata in esergo. 

Quando ti sei resa conto che il cambiamento della forma corporea era la conseguenza di un lutto, che il cibo era la proiezione di un dolore? 

Me ne sono accorta anni dopo, con la terapia psicanalitica e la conseguente consapevolezza di me stessa e del mio corpo, ma in qualche modo (anche se è sempre una considerazione col senno del poi e quindi condizionata) lo avevo capito subito. Io soffrivo per la morte di mio padre e sapevo che il cibo era il mio unico conforto, per questo lo ricercavo ossessivamente, perché solo mangiando riuscivo a sentirmi meglio. Se comprendi come mettere una toppa alla tua sofferenza allora comprendi anche che stai soffrendo. Solo anni dopo però sono riuscita a mettere insieme i pezzi e trovare un senso a tutto, quando sono stata in grado di guardare a ciò che mi era accaduto con maggiore distacco. Lo stesso distacco che è stato fondamentale per trasformare Balena in un personaggio.

Un antico retaggio porta a stimare il benessere delle persone in base alla quantità di cibo che esse ingurgitano, e quindi, se la mancanza di appetito è segno manifesto di un malessere o di un’infelicità, il riempirsi di cibo è sinonimo di una persona che sta bene, e che, al massimo, è un po’ golosa. Tuttavia, chi pensa ciò ignora il potere straordinario del cibo, che può divenire consolazione, riempimento di un vuoto. La nonna materna, quando vede Giulia che accenna un moto di tristezza, accorre in suo aiuto attraverso il cibo, preparandole un pasto con tutto il suo amore. C’è la convinzione che il cibo possa aggiustare tutto, possa rappezzare i pezzi di un cuore spezzato da una perdita improvvisa. Perché, in tante famiglie, la comunicazione passa, unicamente, attraverso il cibo? È la sciagura del nuovo millennio in cui il cibo viene presentato in quantità abbondanti, e quasi infinite, sugli scaffali di un supermercato o nelle dispense di una casa? Perché manca un linguaggio fatto di parole? 

Nella storia della mia famiglia, come scrivo nel libro, il rapporto col cibo è connesso a fattori culturali, a tradizioni tramandate di generazione in generazione. Non credo che l’atteggiamento di mia nonna fosse legato a pratiche tipiche del consumismo (aveva fatto la guerra e non si faceva attrarre dalle offerte nei supermercati o dall’abbondanza di un carrello) ma più che altro che il cibo per lei e per il resto della famiglia, di conseguenza, fosse una forma di linguaggio (anche di riscatto nel suo caso specifico, ma questa è un’altra questione, legata alla povertà che ha vissuto da bambina). Le mie origini sono calabresi, da noi ai funerali si mangia, il Giorno dei Morti si mangia, quanto si aspetta una notizia che potrebbe essere negativa si mangia, per dire ti voglio bene si preparano le lasagne. 
I pranzi sono un rito, una maniera per distrarsi ma anche per stare insieme e tenerci uniti. C’è anche molta allegria. La particolare circostanza che io racconto nel libro, la morte di mio padre, è avvenuta in maniera improvvisa, credo che nessuno in famiglia avesse le parole per descrivere come si sentisse o per lenire il dolore mio e di mia madre, così il cibo è arrivato in soccorso, era semplicemente una soluzione facile a un problema complesso. Cosa dici a una bambina di undici anni che ti chiede “Perché è morto proprio mio papà?”, è complicato trovare una risposta, allora le prepari la pizza e speri che mangiandola si distragga un po’. Non abbiamo ancora gli strumenti per parlare di lutto, oggi sembra che qualsiasi argomento sia sdoganato ma quando ci troviamo davanti alla morte allora ecco che nessuno di noi sa cosa dire, cosa fare. Lo stesso accade per la malattia, penso al discorso che fa Susan Sontag in “Malattia come metafora”, equivale anche per la morte. 

A un certo punto, di solito in età preadolescenziale, ci si accorge di possedere un corpo, di comunicare, indipendentemente dalla propria volontà, attraverso un involucro la cui visione, agli occhi dell’interessato, non è mai oggettiva. Il corpo con cui, da bambini, giocavamo, correvamo nei parchi, o ci rotolavamo sulla sabbia, diventa il corpo di un’adolescente che viene guardato, e giudicato. Le compagne di scuola media di Giulia sono crudeli, e non si fanno nessuno scrupolo a inventare un nuovo nome per la loro compagna: Balena. Sono ragazzine di una scuola della precollina di Torino, sono abituate a vivere nel lusso delle loro case in collina o in Gran Madre. Vestono solo firmato, e, il sabato pomeriggio, s’incontrano in Via Mazzini per andare da Brandy e comperare a un costo impensabile dei maglioncini di lana che forse sarebbero più adatti a una bambina delle elementari. Queste ragazzine spietate avevano, dentro di sé, sicuramente, dei grandi dolori insondati e insondabili per comportarsi in questa maniera disumana. Tu stessa scrivi che erano solite lamentarsi dell’assenza della figura paterna nelle proprie case. Ma io mi domando: in questa situazione, se la famiglia non c’era, dov’era la scuola? Dov’era l’istituzione che dovrebbe garantire un’educazione civica e relazionale, che insegni a provare non pietà, ma empatia – da intendere, secondo l’etimologia greca, cioè percezione esperienziale delle emozioni di un’altra persona così come lei le sente? 

L’istruzione non c’era, o meglio, non aveva gli strumenti per capire che i ragazzi e le ragazze esplicitano la loro sofferenza in modi diversi e a volte è necessario scavare oltre, cercare le ragioni di determinati atteggiamenti. O forse non ne avevano voglia, non so, non sta a me dirlo. So che nella mia scuola che di facciata era “superiore alle altre”, sperimentale, più attenta, le emozioni e gli strappi non venivano presi troppo sul serio. Gli anni in cui ho subito bullismo erano molto diversi da quelli che viviamo oggi. Era il 2001 quando tutto è iniziato, come scrivo in Balena la parola “bullismo” quasi non si conosceva o comunque non veniva utilizzata come oggi. Non c’era alcuna informazione, alcuna sensibilizzazione. Se pensi che persino i professori mi prendevano in giro, capisci che eravamo molto lontani da un’educazione all’empatia e all’inclusione. Con questo non sto giustificando gli insegnanti che per me non hanno fatto nulla, anzi, dico sempre che io ho fatto pace con le ingiustizie subite da parte dei miei coetanei ma non perdonerò mai gli adulti, però nel raccontare una storia non posso non prendere in considerazione l’epoca in cui i fatti di Balena sono accaduti. 

E, a questo proposito, ti chiedo: come si può cominciare a parlare nelle scuole di educazione alimentare e di rapporto con il proprio corpo in una maniera che non sia lesiva nei confronti di nessun alunno o alunna? Ci sono, e ci sono stati, infatti, diversi tentativi di introdurre queste tematiche in ambiente scolastico, ma alcuni sono di pessimo gusto, come l’idea di una professoressa di far scambiare tra gli alunni i propri appunti su ciò che mangiano durante la giornata per poi correggersi a vicenda … 

Che idea terribile! Ecco, vedi, si parte sempre dal cibo! Non c’è alcuna cultura rispetto alle tematiche che riguardano i corpi o i disturbi alimentari. Si pensa sempre che basti una dieta, o che serva una dieta, ma il tema è sfaccettato, colmo di contraddizioni e sfumature. 
Per parlarne nelle scuole è necessario prima di tutto essere informati, studiare, confrontarsi con specialisti del settore e non procedere con convinzioni che molto spesso sono dettate dalla società. I canoni estetici dominanti sono il risultato di ciò che qualcuno ha deciso per noi fosse bello, non di un nostro pensiero. Niente di quello che riteniamo accettabile (che poi chi siamo noi per dire cosa è o non è accettabile?) rispetto ai corpi deriva da una nostra riflessione, sono tutte convinzioni che ci sono state inculcate dai media, dalla pubblicità, dai social dalla televisione o dal cinema. Dobbiamo rovesciare questo paradigma, destrutturare le immagini che ci assillano, e cominciare a rappresentare tutti i corpi nella loro pluralità.

Al funerale del padre, Giulia scrive una lettera a lui dedicata, e quando la zia la legge di fronte ai presenti in chiesa, nessuno applaude, tranne la madre. Ma come è possibile, si chiede Giulia, come è possibile che nessuno si alzi di fronte alla testimonianza del dolore di una figlia, come è possibile che nessuno colga la bellezza di quello che lei ha scritto. È, in questo momento, che Giulia capisce che l’altro non è in grado di scorgere il dolore che lei ha dentro, che quella sofferenza è invisibile, e dunque è necessario che lei lo nasconda sotto cumuli di grasso?

Non lo so se è quello il preciso momento. Non saprei dire oggi come la storia di Balena è cominciata. Sicuramente quello per me è stato un giorno decisivo; ho visto la bara di mio padre e ho capito che gli adulti non avevano il tempo di ascoltarmi, o almeno ho pensato fosse così. 
Con la scena che citi volevo più che altro raccontare lo smarrimento di una bambina di fronte al lutto, l’incapacità di reagire a ciò che capita, anche di soffrire, e quindi la tendenza a trasformare il dolore in rabbia. In quel momento Balena era disperata per suo padre ma il suo cervello, in protezione, le ha fatto pensare di essere arrabbiata per la lettera. Procediamo per tentavi quando stiamo male, cerchiamo di difenderci. 

Se i corpi non vengono rappresentati nelle loro pluralità, i corpi lasciati indietro non possono fare alto che scomparire”. Una ragazza che attorno a sé non vede ragazze come lei – non solo a scuola, ma anche sul grande schermo – cresce con la convinzione di essere l’unico esemplare della sua specie, e, quindi, di non esistere in quanto persona, di essere una bestia, un animale. 

Oggi, come tu stessa scrivi, non siamo più all’inizio del millennio, quando la magrezza malata di tante modelle era fotografata, osannata e gigantografata sotto gli occhi di tutti, e il corpo della compagna Anna, che era un corpo malato, veniva celebrato da un gruppo di ragazzine affamate di presunta bellezza. La situazione sembra cambiata, ma forse solo apparentemente. Oggi, infatti, molte serie tv o film narrano di persone diverse ma ponendo sempre la loro diversità al centro della questione, come se la loro vita ruotasse attorno a quel dato – l’aspetto esteriore il più delle volte – e non potesse avere altri obiettivi. La situazione non è delle migliori nemmeno sui social, dove utenti con milioni di followers pubblicano post con milioni di likes affermando, a lettere colorate, che tu, proprio tu che stai leggendo questo post, “vai bene così come sei” e che bisogna “normalizzare i corpi normali”. Tralasciando che un corpo normale non esiste, ma ogni corpo è a sé, qual è l’inganno di queste nuove narrazioni che si presentano come inclusive, ma che spesso, in realtà, non lo sono?

L’inganno è proprio quello che scrivo nel libro e che tu stessa hai riportato qui sopra. Se io racconto la storia di una protagonista con un corpo grasso ma ad un certo punto della narrazione prendo trenta minuti per dire quanto lei sia infelice per via di quel corpo, anche se lo sto rappresentando, sto comunque portando il corpo al centro della storia. Con i corpi magri non capita. Le persone con corpi magari vivono tutte le storie possibili.
Al momento mi viene in mente una sola serie esemplare e ben fatta rispetto a questo tema, che è “Prisma”, in cui una ragazza con una protesi alla gamba è al centro della storia non per la sua disabilità ma per le sue vicende, come è giusto che sia. Finalmente. 

C’è qualcosa che mi rende diversa da qualunque altro tipo di animale e che ancora mi fa considerare di essere anche io umana: provare vergogna […] Mi vergogno quando mi abbuffo, sempre dopo però, mai durante, mentre mangio mi sento felice, quasi euforica. Il cibo mi riempie, mi scalda, mi fa sentire bene. Forse mi costringo a ingurgitare tutto solo per questo, per essere sicura di provare vergogna e quindi di non essere un animale. Più loro mi chiamano Balena, più lo divento”. Come molte ragazzine, Giulia sperimenta la mortificazione della vergogna, per esempio nel doversi chiudere in bagno, durante l’intervallo delle 10.10, per consumare il panino, preparato per lei dalla madre, senza essere vista, e dunque giudicata, dalle sue compagne di classe. E, si vergogna quando deve telefonare alla madre per chiederle il permesso di finire quello che rimane del tubetto di maionese o dell’affettato che sta in frigo. Ma, lei pensa che sia questa vergogna a salvarla dalla certezza di non essere più umana, di non essere un animale, una bestia: la vergogna le permette di considerarsi ancora Giulia, e non del tutto Balena. Parliamo di vergogna: la vergogna è conseguenza dello sguardo esterno, dello sguardo degli altri che ci circondano, o viene da dentro, dal nostro sguardo interiore che è spesso il più severo e giudicante?

Il nostro sguardo interiore non è forse condizionato anche dallo sguardo esterno? Io non mi sarei mai vergognata del mio corpo se non fossi vissuta in un mondo che lo giudicava e lo riteneva sbagliato. Avevo altro a cui pensare, non mi sarei preoccupata delle cosce se non mi avessero ripetuto milioni di volte che erano enormi. Perdiamo un sacco di tempo appresso ai nostri corpi e alla vergogna che proviamo per loro, ma non credo che sia perché siamo troppo severe; è il mondo che non smette neppure per un minuto di giudicarci, pesarci, e osservarci come bestie esposte a un mercato di paese. 

Quella di Giulia è sempre stata una famiglia in cui la forza sta nelle donne di casa. Sono loro – la nonna, la madre, la zia – a trovare soluzioni per andare avanti, a non arrendersi. Nella notte in cui un incendio colpisce l’automobile parcheggiata sotto casa, mentre la futura madre di Giulia si escogita per rinvenire una soluzione, nel futuro padre, la rabbia non ha il tempo di trasformarsi in forza. A Giulia viene insegnato quello che, a sua volta, era stato insegnato da sua nonna a sua madre, ovvero che “le femmine arrivano e ti salvano”. Quanto pesa, nella piccola Giulia, questa missione di salvezza, che le affida non solo la famiglia materna, ma anche la morte del padre? 

Tantissimo. Pesa molto ancora oggi, è il peso più grande che mi porto. I comportamenti che impari e attui in famiglia sono poi quelli che perpetui nella tua comunità, e io ricopro sempre lo stesso ruolo, quella che c’è sempre e comunque, che arriva e ti salva, sulla quale puoi contare. È sfiancante. Spero un giorno di liberarmi da questo senso del dovere e non ricoprire alcun ruolo, essere finalmente me stessa, scoprire davvero chi sono. 

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