“L’ombra di Caravaggio”: un atto di fede al cinema

Nel nuovo film di Michele Placido, l’ “Ombra di Caravaggio” si percepisce già nelle scene iniziali. Sebbene alla fine del lungometraggio la parola assuma un altro significato,  certamente più materiale, il tormento che si legge sul volto del pittore passa esattamente come un’ombra: qualcosa che egli riesce a dissimulare eppure riemerge in ogni sguardo, trascinando nell’abisso chiunque gli si trovi di fronte.

Infatti non è un caso se i primi minuti del film, sugli ultimi anni di vita del pittore, riguardino il momento in cui egli, ferito in volto da un avversario, scopre nel suo riflesso il soggetto perfetto, l’espressione finale con cui rappresentare la testa di Golia. Una testa decapitata, ritratta in un momento di dolore immane, che Caravaggio ispira al suo stesso viso martoriato e stanco.

Le vicende biografiche di Michelangelo Merisi sono note e, per quanto interessanti, superflue da esaminare in questa sede. Il film si concentra, piuttosto, sui suoi ultimi anni a Roma e a Napoli, dove fugge in seguito all’assassinio di Ranuccio e viene ospitato dalla famiglia Colonna; la marchesa Costanza Colonna, interpretata da una impeccabile Isabelle Huppert, è una delle tante narratrici della storia del pittore.

Il film ricostruisce le vicende vissute dal pittore negli ultimi anni del XVI secolo, così come vengono raccontate da svariati personaggi a Louis Garrel, il quale interpreta il ruolo di un inquisitore, assoldato dal Vaticano per indagare sul fuggitivo; ciò che è in gioco è proprio la grazia papale, che permetterebbe a Merisi di poter tornare a Roma senza essere condannato.

Non è un film semplice e la contaminazione del teatro è profonda; i costumi, le scenografie, i dialoghi,  tutto rimanda ad un genere lontano dalla scorrevolezza a cui siamo abituati oggi ma che, anche grazie a questa peculiarità, tiene viva l’attenzione dello spettatore. 

Certo, per un appassionato di storia dell’arte del XVI secolo l’opera sarà sicuramente più attraente; tuttavia, la storia è così intensa che non si può fare a meno di restarne affascinati.

Il Caravaggio narrato da Placido e interpretato da Riccardo Scamarcio è un Caravaggio profondamente tormentato e schiavo dei suoi vizi. L’attore entra perfettamente nel personaggio, rendendolo convincente, vero. In altre parole: suo.

Il conflitto con la chiesa cattolica pervade l’intero film, intrecciandosi alla storia di Merisi e, più in generale, al contesto del 1600. 

Tra i più noti processi per eresia c’è, come ci ricorda la statua in Campo de’ Fiori, quello a Giordano Bruno, ed è proprio con lui che Caravaggio intrattiene una breve conversazione in carcere, la notte prima del rogo di quest’ultimo (interpretato, per altro, da Gianfranco Gallo).

L’universo, l’infinità dei mondi, la fede, la paura della morte: questi sono solo alcune delle tematiche accennate da Bruno nella pellicola, tematiche troppo complesse per essere affrontate e sviscerate in queste poche righe ma che, attraverso le parole degli autori che danno voce al personaggio, assumono sullo schermo una purezza e semplicità disarmanti. Queste colpiscono tanto Caravaggio quanto lo spettatore, mentre le pause e i silenzi concedono spazio alle loro — e alle nostre –  riflessioni. Riflessioni che, dalla notte dei tempi, non possono portare a nessuna conclusione se non ad un processo di autoanalisi e a tutta quella una di domande esistenziali che l’uomo si pone da sempre, in seguito a stimolazioni simili.

Non è facile, oggi, trovare pellicole che inneschino simili processi; perciò, quando questo avviene, è dovuto riconoscerlo.

In questo film dalla fotografia così ricercata, creatrice di effetti di luce ammirevoli,  trovano spazio anche i dipinti del maestro – in forma finita su tela o in elaborazione – i quali, strizzando l’occhio allo spettatore, vengono sparsi qua e là, richiamando, in maniera non troppo implicita, i manierismi tipici delle opere caravaggesche. Ne è un esempio, il meraviglioso tableau vivant riprodotto (ispirato all’opera La morte della Vergine) — , più spontaneo rispetto ai noti pasoliniani, eppure ugualmente commovente.

Caravaggio, “pittore del popolo”. Il suo genio ribelle non si oppone alla morale cattolica per una testarda presa di posizione fine a sé stessa, bensì seguendo una ragione precisa. I suoi soggetti sono persone prese dalla strada: mendicanti, prostitute, addirittura cadaveri. 

Egli, nelle sue opere, rappresenta il dolore e la sofferenza delle figure dei tanto amati Vangeli,  traendo spunto dalla più bassa umanità, l’unica a conoscere effettivamente la vita. Nudità, violenza e realismo sono quindi in primo piano, e ad esse Michele non rinuncia, neppure sotto minaccia.

È evidente in alcune scene del film quanto la sua genialità e il suo talento, nonostante fortemente avversati, fossero tuttavia percepiti anche dai suoi più acerrimi nemici. La sua bravura era innegabile e la consapevolezza dell’eternità delle sue opere diffusa. Ma, come disse anche il pontefice, “la Chiesa non era pronta a tutto ciò”.

Il papato del Seicento, entrante nel periodo barocco e ancora segnato  dalla Controriforma, non era il luogo adatto per le figure terrene di Caravaggio ma, certamente, sapeva che il mondo lo sarebbe stato.

Per quanto possa spaventare, il film può essere apprezzato da molti. Non serve essere  appassionati d’arte per riconoscere l’ottima regia di Placido (interprete del cardinale Del Monte), o la bravura del cast italo-francese; cast che, la sera della prima, viene accolto da una folla entusiasta sul red carpet della Festa del Cinema di Roma, dimostrando ancora una volta il potere aggregativo e unificante del cinema. Quasi, potremmo dire, un atto di fede.

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