Alla Festa del Cinema di Roma gli incontri con autori e sceneggiatori importanti non mancano. Uno dei primi è stato quello del 14 ottobre, che ha visto la partecipazione di Sandro Veronesi, autore de Il colibrì, e Francesco Piccolo, noto scrittore nonché sceneggiatore, insieme a Paolucci e Archibugi, del lungometraggio da esso tratto.
Il film, presentato in anteprima giovedì 13, è l’occasione per dare vita a una serie di riflessioni da parte di entrambi – colleghi e amici di lunga data – incentrate principalmente sul rapporto tra sceneggiatura e scrittura narrativa o, più in generale, tra cinema e letteratura. Rapporto che i due vivono in modo profondamente diverso, seppur entrambi perfettamente inseriti nei due mondi.
Il legame tra scrittura cinematografica e narrativa è da sempre molto forte e le due arti vivono di contaminazione costante; è Veronesi a parlare per primo del potere dell’immagine, che nasce in letteratura per venire in seguito santificato dal cinema, mentre Piccolo evidenzia quanta cultura cinematografica sia presente nei libri contemporanei; cultura che, a suo dire, non influenzava ad esempio la letteratura di Cassola, Bassani o Moravia, abituati ad altri stili narrativi e ad una separatezza maggiore tra i campi.
E l’intersezione è anche il pretesto per il gioco di parole che dà nome all’evento: “Stregati dal grande schermo”, riferimento al noto film Stregata dalla luna e al fatto che, in passato, entrambi gli autori hanno vinto il Premio Strega.
Oltre ad essere molto legati affettivamente, gli autori hanno lavorato spesso insieme, solitamente nell’adattamento cinematografico dei libri di Veronesi; citano, per esempio, il periodo di scrittura di Caos calmo, film con Nanni Moretti ispirato al libro di Veronesi e sceneggiato da Francesco Piccolo. Con una serie di aneddoti, leggeri e mai banali, i due riescono a raccontare in modo scanzonato le varie sfumature delle proprie professioni, le quali si intrecciano costantemente, seppur in modo non sempre pacifico. La scena raccontata da Veronesi sul lancio di un casco integrale diretto verso il fratello Giovanni, noto regista, rende molto bene l’idea degli attriti che possono crearsi. Attriti che, tuttavia, nelle loro storie vengono risolti senza alcun rancore, grazie ai legami affettivi che intercorrono tra loro e ad un’intelligenza lucida e razionale, che permette di riconoscere i propri errori.
Cinema e scrittura, dunque immagini e parole, non necessariamente separate. E da articolista è inevitabile soffermarsi sulle seconde, lasciando le immagini a chi di competenza.
Fingiamo, a questo proposito, di applicare l’algoritmo che crea la famosa “nuvola” di parole online, rendendo evidenti quelle più utilizzate in testi o in discorsi; in questo caso ne emergerebbero tre, estremamente significative per il percorso, professionale e non, di Veronesi e Piccolo. Queste sono: separatezza, libertà e fedeltà.
La separatezza è introdotta quasi subito dall’autore de Il colibrì, che ci tiene ad evidenziare quanto si senta scrittore e quanto poco sceneggiatore. “Non è il mio campo” ammette con lucidità, sottolineando come il mestiere sia complesso e richieda competenze precise, che uno scrittore non per forza possiede. Motivo per cui, tra l’altro, ha sempre rifiutato proposte di regia. “Il regista della famiglia è mio fratello, io sono lo scrittore. Le due cose sono separate!”.
Il due volte premio Strega, che vanta anche una collaborazione con Alberto Moravia a “Nuovi Argomenti”, ci tiene a rimanere distante dalla sceneggiatura dei propri libri, memore di divergenze passate che hanno visto volare caschi integrali e posacenere in vetro (sebbene, raccontata dal vivo, questa storia sia molto meno grave e più comica di come appare).
Rimanendo fuori dai processi decisionali – separato, dunque – Veronesi arriva alla visione finale, riuscendo ad apprezzare i cambiamenti proprio perché funzionano. In fase di scrittura, invece, non ne sarebbe stato affatto convinto. Per lui, quindi, questo distacco è fondamentale.
Il suo è un rapporto con il cinema più tormentato rispetto ad altri. Da forte cinefilo, nonché fratello di un famoso regista, la settima arte è sempre stata parte preponderante nella sua vita. Almeno fino all’incontro con Carmelo Bene.
È infatti l’attore che, durante una collaborazione a Venezia, negli anni ’90, lo libera (ed eccoci infatti alla seconda parola). Con un lavoro di distruzione del monumento cinematografico – che, conoscendo Carmelo Bene, non è affatto difficile immaginarsi – questi rese evidenti a Veronesi alcune contraddizioni, permettendogli di svincolarsi, a suo dire, da quella sua ossessione quasi malata che era la cinefilia.
Una svolta drastica, insomma, niente affatto comune e, tuttavia, funzionale per l’autore. Il quale, da quel momento, affrontò il mondo del cinema in modo diverso, più lucido e consapevole.
Francesco Piccolo affronta una liberazione di segno diverso, seppur ugualmente importante per la sua carriera.
Inizialmente terrorizzato dalla convergenza di letteratura e sceneggiatura, convinto che la propria creatività ne avrebbe risentito, scopre un effetto opposto e benefico quando inizia a tutti gli effetti a svolgere entrambe le professioni; oggi tiene corsi prestigiosi sull’adattamento cinematografico ed è uno degli sceneggiatori italiani più richiesti.
Sa benissimo, come l’amico Veronesi, quanto le due cose siano separate, e ricorda come la capacità nello svolgere la prima non significhi necessariamente la stessa cosa per la seconda (e viceversa).
Questo dà l’input ad una serie aneddotica sicuramente attesa da entrambi, grandi appassionati di letteratura americana contemporanea. I due ricordano, tra le risate, i falliti tentativi di autori come John Fante, Fitzgerald o McEwan, eccellenti scrittori prestati al cinema che, tuttavia, non hanno prodotto risultati altrettanto buoni ad Hollywood.
Ciò che emerge dall’incontro, quindi, è la necessità di considerare le due professioni con le dovute differenze, senza sottovalutarne le rispettive difficoltà. Anche perché, come ricorda Piccolo, un lavoro fatto bene può portare a grandi risultati; con il cinema, per esempio, questi si sente più coraggioso anche nei propri libri, e sprigiona una creatività frutto dell’interscambio continuo tra le due discipline. La paura iniziale scompare, mentre la voglia di mettersi in gioco cresce esponenzialmente.
A questo proposito, giunti alla fine dell’incontro, viene menzionato l’adattamento cinematografico de Il colibrì, realizzato anche da Piccolo.
Perché, stando alle sue parole, egli si sente legittimato a fare questo lavoro, collaborando a progetti con amici stretti?
Ci risponde con la terza e ultima parola: fedeltà.
Da un libro complesso, drammatico e commovente, il lettore doveva aspettarsi un film in cui potesse riconoscere l’opera prima. Questo era fondamentale per gli sceneggiatori: il riconoscimento reciproco, qualcosa che trascende la bellezza del risultato e che porta ad un accostamento armonioso tra i due, assicurandosi la fiducia del lettore/spettatore e rispettando sempre l’opera d’arte.