Questa mattina, sotto una pioggia silenziosa, ha avuto ufficialmente inizio la diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma, evento creato e organizzato ogni anno dalla Fondazione Cinema per Roma.
Ad aprire le danze è stato Il Colibrì di Francesca Archibugi, film italiano lungamente atteso fin dalla vittoria del Premio Strega dell’omonimo libro, al quale la pellicola si rifà fedelmente.
Archibugi, affiancata alla sceneggiatura da Piccolo e Paolucci, mette in scena il romanzo di Sandro Veronesi, pubblicato nel 2019 da La Nave di Teseo e vincitore del prestigioso premio letterario l’anno successivo.
Dai film italiani, di solito, si sa cosa aspettarsi, soprattutto quelli con un cast così noto. La storia, inoltre, era perfettamente conosciuta da chi ha letto il libro; dunque, potremmo quasi dire che la visione non ha suscitato sorprese o sconvolgimenti.
Nonostante ciò, oltre ai dovuti (e forse scontati) complimenti, trovo che qualcosa da sottolineare ci sia; qualcosa di nuovo, che non avrei mai creduto di provare come spettatrice.
Complice delle mie impressioni, sicuramente l’atmosfera: la pioggia ad attutire i rumori, la visione del film alle 9 di mattina, la miriade di giovani giornalisti presenti in sala (fatto, questo, che lascia ben sperare per il futuro del giornalismo culturale).
Insomma, una serie di fattori certamente responsabili di aver potenziato la personale commozione, portandola fuori dalle scene del lungometraggio, oltre la mera visione.
Ma non si può negare che il cinema sia anche questo: ovvero, tutto ciò che sta intorno al film.
Senza troppo dilungarmi in pensieri sterili ed evitando, quindi, di cadere nella retorica, vado al fulcro: il film è bello. Come già riportato, esso segue fedelmente il romanzo, evitando l’errore (comune nel nostro paese) di romanticizzare ulteriormente, rendendo stucchevoli drammi originariamente secchi e puliti.
La paura c’era, il rischio anche. Eppure, Archibugi dirige il vasto cast con maestria, accostandosi con uguale cura del dettaglio ad ogni personaggio, anche quelli minori.
A partire da Pierfrancesco Favino – al quale ormai si può dire ben poco – che si riconferma un grande talento (nota di merito, tra le tante, il valido destreggiamento del fiorentino, favorito sicuramente dalle assidue frequentazioni della Pergola).
È però l’intero cast che, lavorando insieme, rende alla perfezione. Gli attori si fondono completamente con i propri personaggi, ognuno è calato nella parte e sintonizzato con gli altri. Il risultato, dunque, è un film armonioso in cui tutto fila e tiene incollato allo schermo per oltre 120 minuti.
Nonostante le apparenze, non era una sfida semplice; il romanzo, oltre ad essere estremamente drammatico, è sviluppato su una serie ininterrotta di salti temporali, alcuni molto vicini tra loro, cosa che può confondere.
Nonostante questa difficoltà, il lungometraggio si riesce a seguire con agilità fin da subito, seppur manchino date e indicazioni cronologiche, presenti invece nel libro.
Complice sicuramente la riscrittura di Archibugi, Piccolo e Paolucci, che ha reso valida e apprezzabile la trasposizione cinematografica di un romanzo già bello ma complesso.
La storia rientra perfettamente in una categoria dal nome poco tecnico, scevro da qualsiasi legame con la terminologia ufficiale, eppure estremamente efficace ed evocativo: è una storia da cosiddetto mal di pancia.
Certo, i problemi di stomaco c’entrano poco, ma quello che ti smuove emotivamente lo senti proprio lì; non per niente gut, in inglese, significa intestino, ma anche coraggio e istinto.
E in effetti, Il Colibrì l’intestino te lo colpisce con forza, sferrandovi un pugno morale (perlomeno questa è stata l’impressione, vista la quantità di lacrime versate in sala).
Al di là della commozione per gli eventi drammatici nella storia del protagonista, il medico fiorentino Marco Carrera, sono le riflessioni dei personaggi a innescare quelle degli spettatori che, inconsapevolmente, si ritrovano ad associare le situazioni al proprio vissuto, senza nemmeno averne vera cognizione. Dunque un film, e ancor prima un libro, che fanno riflettere e sviluppare processi di autoanalisi nei fruitori; una delle funzioni primarie dell’arte.
In definitiva, il risultato è ottimo e la visione non delude. C’è però una cosa del quale ho notato la mancanza: un concetto semplice, esposto nel libro da un personaggio secondario ma che, tuttavia, a mio parere, ha un senso profondo e, pertanto, meritava di essere incluso.
Non è questo il luogo per rovinare il finale a futuri spettatori, rivelando dettagli ed eventi; mi appoggio quindi alle parole del premio Pullitzer Lin-Manuel Miranda, che qualche anno fa scrisse “in the eye of a hurricane there is quiet”, nell’occhio di un uragano c’è calma.
Il ciclone, in questo caso, è un dettaglio trascurabile del film, qualcosa che non ci si aspetta ma la cui lontananza può avere conseguenze sfortunate per il protagonista.
Perché, in fondo, si parla di fortuna. Spetta poi ad ognuno di noi scegliere di crederci o meno.