Stefano Ruzza: “Il Myanmar è in una condizione di guerra civile continua dal 1939. La contestazione politica, anche in forme violente, è sempre stata molteplice in Birmania”

Stefano Ruzza, professore dell’Università di Torino e co-fondatore di T.wai – Torino World Affairs Institute, è stato protagonista dell’evento “AMIStaDeS Webinar On World (WOW)”, moderato da Irene Piccolo (Presidente, AMIStaDeS).

Con lui fare il punto della situazione in Myanmar, a oltre un anno dal golpe che ha visto il cambio di regime nel

Paese.

Professor Ruzza, il primo febbraio 2021 il Tatmadaw, l’esercito del Myanmar, arrestava i vertici della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), il partito che aveva vinto le elezioni con un ampissimo consenso. Nei mesi successivi proteste e violente repressioni hanno portato il Paese quasi sull’orlo di una guerra civile. Oggi che aria si respira nel Paese? Le chiederei di fare un punto sulla situazione in Birmania.

Il golpe del febbraio 2021 si innesta su un contesto tradizionalmente caratterizzato da violenza politica persistente e diffusa: va ricordato che il Myanmar è in una condizione di guerra civile continua addirittura da prima dell’indipendenza, cioè dal 1939. A mio giudizio, lo scenario corrente si può riassumere prima di tutto osservando come il golpe ha influito sulle due classiche arene di contestazione violenta in Myanmar – ovvero quella centrale (relativa al governo del paese, per stabilire chi debba governare dalla capitale) e quella periferica (pertinente cioè alle richieste di indipendenza e autonomia che arrivano dalle cosiddette borderlands birmane, e alle insurrezioni etniche colà attive) – e poi valutando gli elementi di novità.

Partiamo da quella che potremmo chiamare l’arena “centrale”, ovvero la lotta volta a definire chi debba governare il paese nel suo complesso, scontro che attualmente pone lo State Administration Council (SAC) militare contro il governo civile in esilio (NUG – National Unity Government) guidato dall’NLD, vincitore delle elezioni del 2020. Chiaramente tutti i cittadini birmani che si riconoscevano nel processo di liberalizzazione politica parziale (processo peraltro avviato dai militari stessi nei primi anni 2000), dopo il golpe sono scesi in piazza a manifestare contro il ritorno dei militari al potere. Questa protesta in origine si è manifestata in forma pacifica e di disobbedienza civile, ma a fronte della immediata e brutale repressione dei militari, ha presto generato degli spin-off che hanno abbandonato le città e sono passati anche a forme di protesta violenta. Oggi si stima questa componente di protesta armata nell’ordine delle decine di migliaia di individui. Si tratta di un numero notevole, considerando che l’insieme delle forze armate birmane (il Tatmadaw) si attesta sulle circa trecentomila unità. Non va però dimenticato che i rivoltosi sono frammentati su un vasto territorio, non sempre ben collegati tra di loro, e che dispongono di armi e equipaggiamenti limitati, mentre il Tatmadaw è una organizzazione centralmente amministrata e coordinata, ben armata, e abituata da decenni alla contro-guerriglia e alla contro-insurrezione. L’evoluzione della protesta anche verso forme violente, e la reazione delle forze armate spiega il picco di violenza a cui abbiamo assistito in seguito al golpe.

Passiamo poi all’arena periferica. In Myanmar sono attive diverse organizzazioni armate etniche (EAO – Ethnic Armed Organizations) che fin dalla fine della dominazione britannica sul paese si sono poste in opposizione al governo centrale, rivendicando indipendenza o maggiore autonomia. Ogni EAO fa storia a sé, dal momento che ognuna nasce per rispondere a istanze prettamente locali. Questo significa che anche se tutte le EAO hanno un avversario comune (il governo centrale birmano, non importa se retto da civili o da militari), non necessariamente le EAO si muovono in modo coordinato. Le EAO attive in Myanmar sono circa una ventina, e anche se esistono e sono esistite alleanze e forme di cooperazione più o meno stabili e più o meno formalizzate nessuna di queste è mai stata universale (cioè capace di unire tutte le EAO sotto un’unica bandiera), e ogni EAO ha determinato la propria condizione di guerra o di cessate il fuoco con il governo sulla base di considerazioni in primo luogo interne. Il golpe ha rimescolato le carte in questa arena perché, come sempre avviene quando c’è un cambio di governo nella capitale birmana, ogni EAO ha reagito in funzione della propria realtà locale, della propria agenda e del proprio calcolo. Alcune EAO hanno mantenuto lo stato di cessate il fuoco o di belligeranza che già avevano prima del golpe; per altre il cambio di governo ha significato un venir meno di fatto della situazione di cessate il fuoco; mentre per altre ancora il colpo di stato ha presentato una finestra di opportunità, che ha consentito di guadagnare influenza sul territorio (poiché il Tatmadaw era affaccendato nella repressione) e che ha permesso di intavolare negoziati con due governi (SAC e NUG) per valutare chi offrisse contropartite migliori in cambio di appoggio politico. Sovente si è sentito raccontare che dopo il golpe le insurrezioni etniche hanno fatto blocco dietro il NUG, ma la realtà dei fatti non è questa. La più grande EAO attiva nel paese, lo United Wa State Army (UWSA, forte di circa 25.000 uomini su un totale di insorti etnici attivi in tutto il paese pari a 80.000 unità) è in una condizione di cessate il fuoco dal 1989, e non ha di fatto rivisto la sua posizione da allora, né a fronte della liberalizzazione dei dieci anni passati né del recente golpe. E se pure è vero che la Karen National Union (KNU), che si trovava in condizione di cessate il fuoco dal 2012 ha ripreso le armi per opporsi al ritorno al potere dei militari, la Kachin Independence Organization (KIO), pur rigettando sul piano politico il ritorno del Tatmadaw alla guida del paese, era già in condizione di aperta belligeranza dal 2011, quindi anche contro i precedenti governi civili. Altre EAO ancora, primo tra tutti l’Arakhan Army (AA), hanno visto nel golpe un’opportunità e hanno tenuto negoziati con entrambi i governi (SAC e NUG) per stabilire con chi schierarsi e in quale misura per massimizzare i propri ritorni politici attesi.

Infine, e questa è la grossa novità, oltre a rimescolare le carte nelle classiche arene di contestazione violenta, il golpe ha generato quello che potremmo definire un terzo spazio di contestazione violenta. Gli oppositori che in origine hanno manifestato nelle città dopo il golpe, e che successivamente si sono spostati nelle campagne imbracciando le armi, hanno dato vita a un nuovo gruppo di organizzazioni armate chiamate People’s Defence Forces (PDF). Si tratta di milizie di nuova formazione, che si dichiarano sostenitrici del NUG, e che si collocano in uno spazio sociale parzialmente diverso e parzialmente in sovrapposizione con quello storicamente occupato dalle EAO. La differenza è data dal fatto che una quota sostanziale degli insorti delle PDF sono Bamar, cioè persone che afferiscono al gruppo etnico maggioritario in Myanmar, e dunque necessariamente non parte di nessuna insurrezione etnica. La sovrapposizione invece è relativa al fatto che per potersi organizzare le PDF devono basarsi in zone di difficile accesso per il Tatmadaw, e sovente si tratta di aree già sotto il controllo, totale o parziale, delle EAO. Lo spazio di manovra delle PDF è dunque dato dalla relazione particolare che l’emanazione locale del PDF su un dato territorio riesce a istituire con le EAO già presenti in quella stessa area. I risultati sono vari, e cambiano da zona a zona del paese. In Chin State per esempio, nell’area occidentale del paese, dove l’insurrezione etnica era di fatto già cessata da decenni ma dove esistono fattori strutturali (che vanno dalle caratteristiche del terreno alla disponibilità di armi da fuoco) conduttivi all’insurrezione armata, le PDF hanno potuto svilupparsi in modo robusto. Nelle aree Karen (a est del paese), le PDF hanno trovato nella Karen National Union un alleato disposto a fornire riparo ai manifestanti in fuga dalle città e addestramento a coloro che fossero interessati a proseguire la lotta con le armi in pugno, quindi è avvenuta una ibridazione parziale. La situazione però è ben diversa nel nord-est o nel sud-ovest del paese, dove le EAO presenti hanno un atteggiamento più ambiguo nei confronti del NUG, e dove le EAO non sono disposte facilmente a cedere spazi di contestazione politica ad altri soggetti, incluse le PDF.

In sintesi, la contestazione politica, anche in forme violente, è sempre stata molteplice in Myanmar, e dunque difficile da leggere perché non riducibile in semplici schemi binari, dato che è popolata da una varietà di attori e dunque costituita da un complesso e variabile reticolo di relazioni. Il golpe ha reso il quadro ancora più complesso, perché ha moltiplicato il numero di attori, rendendo la matrice di relazioni che descrive il paese ancora più intricata. Questo rendere difficile tracciare una traiettoria circa il futuro, anche se, sulla base delle esperienze passate del paese, è facile immaginare che nessuna delle parti in causa sarà disposta a gettare facilmente la spugna. Detto in parole povere, la contestazione armata continuerà nell’immediato futuro, così come la repressione. Insurrezioni e contro-insurrezioni sono attività di lungo periodo, e il Myanmar ha purtroppo una lunga tradizione in materia.

Un golpe come quello del 2021 non avviene da un giorno all’altro. Quali sono state le cause che hanno portato al colpo di Stato e quali le contingenze che l’hanno agevolato?

In primo luogo, vale la pena osservare che se pure ci potevano essere dei dubbi sul quando e sul perché si sarebbe verificato qualcosa come ciò che è avvenuto il 1° febbraio 2021, si poteva avere ragionevole certezza che prima o poi qualcosa del genere si sarebbe verificato, dato che la “sceneggiatura” degli eventi era già stata posta addirittura nella costituzione birmana. Va infatti ricordato che gli architetti della liberalizzazione politica birmana sono stati i militari, e che la costituente è stato un processo da loro guidato. Non sorprendentemente dunque, la costituzione che ne è scaturita contiene un meccanismo che consente di trasferire il potere nuovamente nelle mani del Tatmadaw in caso di emergenza nazionale. È proprio quel meccanismo che è stato usato il 1° febbraio 2021 per rimettere i militari al timone.

Posto dunque che il Tatmadaw era strutturalmente già organizzato per condurre un colpo di stato in qualunque momento, e che ha usato una capacità di cui già disponeva, si tratta di capire perché questo sia avvenuto proprio il 1° febbraio 2021, e con quali scopi. La prima delle due domande (perché il 1° febbraio?) è quella più difficile da investigare, dato che il Tatmadaw è una organizzazione opaca. In materia si possono solo fare ipotesi, difficili da verificare. Personalmente, trovo convincente l’interpretazione che pone al centro la definizione del nuovo comandante in capo del Tatmadaw, un processo che richiede il concorso del Presidente del Myanmar e del National Security and Defence Council (NSDC), un organo in cui i militari sono in maggioranza ma in lieve misura. Min Aung Hlaing si sarebbe dovuto ritirare già nel 2015, ma la schiacciante vittoria elettorale dell’NLD gli ha suggerito di posticipare la data del suo ritiro per evitare sgradite interferenze nella definizione del suo successore. Le elezioni del 2020 hanno rinnovato il risultato precedente, ripresentando ai vertici militari birmani il rischio di definire un comandante in capo di compromesso, potenzialmente aperto a riforme politiche. È lecito dunque supporre che il Tatmadaw abbia optato per il golpe di modo da avere agio di rivedere la procedura per la definizione del Comandante in Capo senza interferenze da parte dell’NLD o di qualunque altro attore.

Indipendentemente dalle contingenze che hanno suggerito al Tatmadaw di operare un golpe, la condotta assunta dal SAC dopo il colpo di stato, consente di individuare in modo abbastanza chiaro quale sia l’agenda politica del governo militare: in sintesi, rivedere “al ribasso” la liberalizzazione politica birmana, riformando il sistema elettorale e limitando la competizione politica, in modo da eliminare la possibilità di vittoria di partiti non graditi al Tatmadaw stesso. Non casualmente, infatti, fin da subito il SAC si è speso per una riforma della commissione di controllo elettorale, per la sostituzione del sistema elettorale maggioritario in favore di un modello proporzionale, e per l’eliminazione dell’NLD dai partiti ammessi alla competizione politica. Si tratta di un insieme di riforme che, combinate tra di loro, sono volte a garantire un dominio pressoché certo del partito proxy del Tatmadaw (correntemente è lo Union Solidarity and Development Party – USDP) in una prossima elezione. Il punto di arrivo desiderato consente dunque di unire tra loro i vantaggi di un controllo politico sul paese pressoché garantito ai benefici di una apparente liberalizzazione politica, il che significa rapporti commerciali e diplomatici con una gamma più ampia di paesi.

La Cina ha sempre avuto interessi molteplici in Myanmar: politici, geografici, economici. Alla luce del colpo di stato, come sono cambiati, se sono cambiati, i rapporti tra questi due paesi? E quello con Europa e Stati Uniti d’America?

Anche in questo caso, per comprendere gli effetti del golpe serve osservare il pregresso delle relazioni internazionali. Il Myanmar ha sempre avuto un rapporto stretto ma travagliato con la Cina. In particolare, i militari, che hanno governato il paese ininterrottamente dal 1962 al 2011, si sono trovati progressivamente obbligati a intrattenere strette relazioni con Pechino, ma non hanno mai apprezzato questo fatto. Questo in parte per ragioni storiche di sfiducia, ma soprattutto perché dipendere quasi interamente da un partner solo e peraltro molto più potente pone in una condizione di vassallaggio certamente non apprezzabile. La liberalizzazione politica, nelle ambizioni del Tatmadaw, era una mossa volta a ridurre la necessità di appoggiarsi al partner cinese, e a diversificare le relazioni internazionali del paese, sia sul piano diplomatico che commerciale, guadagnando così in termini di indipendenza strategica.

Il dato di partenza appena citato si è riflesso dinamiche politiche birmane del periodo semi-democratico (ovvero dal 2010 al 2021). Il tentativo di ridurre l’influenza cinese e allargare la gamma dei partner si è sostanziato nella politica del governo Thein Sein (2011-2016), espressione dell’USDP, cioè del partito proxy dei militari. Questo ha naturalmente portato a progressivo interesse e a un avvicinamento da parte cinese verso l’NLD. Non casualmente Aung San Suu Kyi ha avuto diversi incontri di alto livello in Cina prima delle elezioni del 2015, e il successivo governo dell’NLD è stato senz’altro più apprezzato a Pechino di quello dello USDP (peraltro colpevole di avere bloccato alcuni mega investimenti cinesi, primo tra tutto il super-progetto idroelettrico della diga di Myitsone). Il golpe del 1° febbraio ha presentato alla Cina una situazione inattesa e non particolarmente gradita, con la quale hanno però dovuto scendere a patti. La Cina sta dialogando con il Myanmar come ha sempre fatto, ma ha anche richiesto al SAC di non sciogliere l’NLD. Comunque vadano le cose, Cina e Myanmar sono obbligati alla continuazione delle relazioni bilaterali, anche se nessuno dei due governi ritiene ideale la condizione corrente: la Cina preferirebbe un governo diverso con il quale interloquire, il SAC preferirebbe non doversi di nuovo appoggiare in via predominante alla Cina.

Per quel che concerne Europa e Stati Uniti, il Myanmar è stato a lungo una realtà marginale sia dal punto di vista diplomatico che da quello economico, e dopo un breve periodo durante il quale è stato posto sotto i riflettori, pare ormai almeno dal 2017 avviato lungo un percorso volto a riporlo nella stessa nicchia in cui era in precedenza collocato. Prima le persecuzioni contro i Rohingya hanno dimostrato che una democratizzazione parziale non era immediatamente coincidente con una tutela profonda e diffusa dei diritti umani, e ora il ritorno in sella dei militari, per quanto potenzialmente temporaneo, ha rinforzato l’impressione che il paese sia ricaduto nei suoi vecchi costumi politici. Naturalmente le cose non stanno così, e il Myanmar del 2022 è molto diverso da quello del 2010. Ci si dimentica con troppa facilità che le trasformazioni politiche e sociali non sono a senso unico, ma incontrano lungo la loro strada ostacoli con i quali devono fare i conti, il che a volte comporta anche dei passi indietro. Quanto questi siano temporanei o definitivi dipende anche dal tipo di supporto esterno che si è disposti a dare per favorire uno sviluppo in positivo. Purtroppo però, in un momento in cui l’agenda internazionale dell’Occidente è dominata dal conflitto russo in Ucraina, mantenere attenzione e risorse su un contesto percepito come tanto remoto e marginale è ancora più difficile.

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