«È vero, principe, che una volta avete detto che il mondo sarà salvato dalla bellezza?»
In questa breve frase, mi sembra, è racchiuso il senso principale di quest’opera di Dostoevskij, una delle penne più affermate, lette, amate e studiate della letteratura russa.
Sul Giornale di confine si legge che «Raramente una frase sola ha avuto tanta fortuna di per se stessa» e forse, è proprio così. Quante volte abbiamo sentito e letto quest’espressione nei contesti più disparati? Così spesso che quasi si perde di vista la sua origine e il contesto di riferimento. Potrebbe sembrare una frase senza importanza, senza un vero e proprio significato, quasi superflua, tuttavia, è l’esatto contrario.
Questa, infatti, è una delle tante prove della genialità di Dostoevskij, nelle cui opere nulla è lasciato al caso. La bellezza salverà il mondo, ma di quale bellezza stiamo parlando? A cosa si riferiscono le parole che Dostoevskij associa al principe Miškin, l’idiota?
C’è, anzitutto, da affrontare il tema della bellezza nella tradizione russa, la quale, come scritto nel Giornale di confine, «assume valori sofianici e iconografici capaci di incanalare la questione su binari ben tracciati. Lo stesso termine krasotà (bellezza), in russo, così come l’aggettivo krasìvyj (bello) hanno un significato molto più specifico di quello che percepiamo nella traduzione italiana».
Tuttavia, è pur vero che non è possibile circoscrivere un tale scrittore all’interno di rigidi schemi interpretativi: Dostoevskij, infatti, seppur fosse “il più russo di tutti” era anche il più estraneo alla tradizione russa. Solo da questa breve premessa si può capire quanto sia complesso, se non impossibile, dare un’interpretazione univoca a uno scrittore che, all’interno di una stessa opera – e spesso, all’interno di uno stesso personaggio – mette in gioco molteplici idee contrastanti.
Ritornando alla fatidica espressione, la bellezza salverà il mondo, un ruolo tutt’altro che banale è giocato proprio da quel “mondo”. Per capirlo dobbiamo rifarci alla frase in russo: «Мир спасет красота» (Mir spasët krasotà) che letteralmente si traduce con «Il mondo salverà la bellezza». Dostoevskij ha, dunque, effettuato un’inversione tra l’oggetto (il mondo) e il soggetto (la bellezza). Curiosamente, poi, la parola “mir” ha due possibili traduzioni: mondo e pace. In questo senso, forse, si potrebbe intendere che il desiderio dell’uomo di raggiungere l’armonia (e, dunque, la pace) coincide con la stessa umanità (col mondo). E sarà la bellezza a renderlo possibile.
Per comprendere meglio un’opera dall’enorme portata geniale come questa, non può non essere presa in considerazione una lettera che Dostoevskij scrisse alla nipote Sonija Ivanova, nella quale sosteneva che «L’idea centrale del romanzo è di descrivere un uomo assolutamente buono. Nulla ci può essere di più difficile al mondo, specialmente ai nostri giorni […] Tutti gli scrittori che hanno cercato di rappresentare il bello assoluto, hanno sempre fallito, perché è un compito impossibile. Il bello è l’ideale, e l’ideale, sia da noi che nell’Europa civilizzata, è ancora lontano dall’essersi cristallizzato».
Per Dostoevskij, la bellezza è un ideale ed è automatico il legame che si instaura tra questa e il bene. Il ruolo che ne segue, affidato proprio alla bellezza, è fondamentale: a lei spetta il compito di eliminare caos e disordine dal mondo per instaurare l’armonia perfetta. Ma se ciò è vero, lo è anche l’innegabile natura enigmatica che la investe. Come fa a eliminare il caos e a stabilire l’armonia perfetta? Ecco, dunque, che la bellezza ha un suo rovescio terribile, spaventoso, ignoto, che lo scrittore russo riprenderà nel noto romanzo I fratelli Karamazov:
«La bellezza è una cosa tremenda e orribile. – dirà Mitja – Non riesco a sopportare che un uomo dal cuore nobile e dall’ingegno elevato cominci con l’ideale della Madonna per finire con quello di Sodoma. Ma la cosa più terribile è che, portando nel suo cuore l’ideale di Sodoma, non rifiuti nemmeno quello della Madonna… Il cuore trova bellezza perfino nella vergogna, nell’ideale di Sodoma che è quello della maggior parte degli uomini»
Ma è già nell’Idiota che essa diventa, se non tremenda e orribile, un enigma ed è proprio il principe a dircelo: «Giungemmo a Lucerna e mi condussero sul lago in barca. Comprendevo la sua bellezza, ma, nello stesso tempo, mi sentivo molto oppresso… Provo sempre un senso di pena e di inquietudine, quando contemplo per la prima volta un simile quadro della natura: ne sento la bellezza ma mi riempie di angoscia». Lo stesso pattern si ripresenta quando il principe contempla Aglaja per la prima volta e, ancor prima, quando a essere contemplato sarà il ritratto di Natas’ja Filippovna.
Insomma, così come appare chiaro il ruolo innegabile della bellezza, lo è anche il progetto di Dostoevskij di dare vita – come si è già detto – a un essere assolutamente buono. Il paragone tra il principe e Cristo, a questo punto, diventa inevitabile, soprattutto se si tiene conto di un’altra affermazione dello scrittore: «Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, ma l’apparizione di questo essere immensamente, infinitamente bello, è di certo un infinito miracolo». Ed è proprio questo Miškin: bello e buono. La sua bellezza, la sua assoluta intelligenza, la sua bontà ed estrema fiducia nel genere umano sono tutte qualità che agli altri personaggi del racconto non sfuggono ma che, allo stesso tempo, non risultano completamente comprensibili: è anche per questo – oltre che per l’ingenuità del principe – che non cessano mai di definirlo idiota.
Quest’aggettivo, allora, assume tutt’altro significato: l’idiota è – nella tradizione russa – lo juròdivij, il folle in Cristo, il puro, il senza macchie, colui che tutto comprende e per cui nulla è imperdonabile. Da qui, da questa sua incapacità di condannare, deriva quella che per gli altri è ingenuità. Nei piani di Dostoevskij il principe è Cristo arrivato in Terra, tra gli uomini, nei nostri giorni. Ma perché? Forse, tra gli intenti dello scrittore c’era la curiosità di capire come si sarebbe comportato Cristo nella contemporaneità e se avrebbe davvero redento l’umanità.
Si tratta di elementi dai contorni sfumati, inafferrabili e la prova di ciò ci viene data dal fatto che quella stessa frase citata in partenza (La bellezza salverà il mondo) non la leggiamo mai pronunciata dal principe in persona, ma gli è sempre attribuita da altri, “principe, una volta avete detto che…”. Questo minuscolo particolare rende ancora più chiara e palpabile la lontananza di tale affermazione. Da dove viene? Che origini ha? Non lo sappiamo, non ci viene detto, ma sappiamo dove andrà a finire: nel fallimento.
«L’Idiota – si legge nel già citato articolo del Giornale di confine – è il romanzo dell’intelligenza umana: la più alta, la più acuta. La comprensione puntuale e dettagliata di tutte le cose: ognuna guardata dritta in volto, senza veli. L’insensata tragicità (nelépyj tragizm), ombra oscura sempre accanto alle singole epifanie dell’idea russa, mostra il suo volto definitivo laddove la più alta idea possibile (la Salvezza, la Redenzione) decide di misurarsi per la prima volta con la realtà. La tragedia di questo incontro si consuma per Dostoevskij, paradossalmente, in due modi opposti tra loro. La Bellezza è allo stesso tempo la più elevata menzogna e la più alta verità per gli uomini.»
Il principe (Cristo) è “infinitamente buono” con tutti, presta il suo aiuto a chiunque, a prescindere dalle cattive azioni che ha compiuto: è idiota, ingenuo, certo, ma capisce tutto, comprende tutto, la sua intelligenza – come gli ripeterà spesso Aglaja – è impareggiabile, ineguagliabile.
Ma anche gli altri lo sanno: davanti a loro hanno l’uomo più idiota e, al tempo stesso, il più intelligente al mondo. Ma cos’ha in comune il nostro idiota con Cristo? Apparentemente quasi nulla: il principe comprende, Cristo non ne ha bisogno perché sa già tutto; al principe interessano le faccende umane, i meccanismi della mente e dell’anima, Cristo ne è indifferente perché ciò che sa gli basta e non gli interessa sapere altro; se il ruolo di Cristo nel Vangelo è quello di annunciatore, Miškin è un ascoltatore.
Alla fine, la domanda che il lettore si pone inconsciamente e costantemente durante la lettura è una sola: ma allora il mondo sarà salvato dalla bellezza, oppure no? È davvero auspicabile e fattibile una tale soluzione?
Facendo un’analogia tra il principe e Cristo, il risultato è – come si è già accennato – l’inevitabile fallimento del terreno, dell’umano. La salvezza, se ci sarà, non sarà cosa dell’uomo.