“Le madri non dormono mai”, intervista a Lorenzo Marone

Diego e Miriam

Chi sono e cosa sono Diego e Miriam, i protagonisti del nuovo libro di Lorenzo Marone, Le madri non dormono mai, edito da Einaudi Editore nella collana Stile Libero?
Semplicemente, un figlio e una madre; un bambino e una donna. All’età di nove anni, Diego cambia casa: dalla sua abitazione malavitosa, in un caotico quartiere rionale di Napoli, si trasferisce insieme alla madre Miriam in un paesino incastonato tra i monti, all’interno di un Icam, un istituto a custodia attenuata per detenute madri.
Consapevole che il vincolo materno sia un legame così indissolubile da essere difficilmente scioglibile, la legge italiana predispone l’esistenza di istituti di questo genere, in cui le madri vivono insieme ai loro figli, che non avrebbero altro posto dove stare, in celle, che vengono chiamate “case”, e in cui viene insegnato loro un mestiere affinché, non più prigioniere, possano riprendere a vivere una vita in maggiore sicurezza.

Nell’aprile del 2021, hai visitato l’Icam di Lauro, in provincia di Avellino. Immagino che tu sia subito entrato in contatto con un ambiente molto simile a quello che descrivi nel tuo libro. Cosa ti ha spinto a scrivere una storia su questo posto e sulle persone che lo abitano?


La voglia di guardare al di fuori di me, i più sfortunati, gli ultimi, i bambini. Mi sembrava inconcepibile vedere questi dietro le sbarre. Un mondo e una realtà a mio avviso da raccontare, da conoscere.

Fiducia nel mondo: sia Miriam sia Diego, in un primo momento, nutrono una forte diffidenza nei confronti del mondo che li circonda. Non sono abituati alla gentilezza, e, se per caso, s’imbattono in questa, dubitano subito della sua verità, credendo che dietro la cortesia si celi sempre qualcosa di sospetto e infido. Tuttavia, Miriam e Diego sono molto diversi: mentre Miriam è adulta abbastanza da essersi creata degli artigli con i quali difendersi e, soprattutto attaccare la realtà esterna, Diego, invece, non ha avuto ancora tempo per sviluppare un’armatura adeguata a difendersi dalle ingiustizie e sevizie del mondo. Miriam è una vera e propria guerrigliera, un animale selvaggio che ha nel sangue la lotta, Diego, invece, è buono con tutti, ha un coltello in tasca che non osa impugnare verso chi lo bullizza e gli fa del male. Riferendoci al personaggio di Miriam, l’istinto bestiale della
giovane donna ad attaccare il prossimo, e a non fidarsi dell’altro, si può leggere come una risposta da parte di chi, dopo aver creduto nella bontà della vita, da questa vita è stato tradito al punto da non crederci più?


Miriam è figlia del suo vissuto, cresciuta in un contesto degradato, nella cultura del nemico, abituata a muovere battaglia al prossimo, ad attaccare per prima, per difendersi. Una ragazza alla quale è stata rubata l’infanzia, come a molti bambini della mia martoriata terra, purtroppo.

Questo romanzo non racconta esclusivamente della vita delle madri carcerate, ma anche degli uomini e delle donne che lavorano all’interno dell’istituto: le guardie carcerarie, gli educatori e le educatrici, i volontari e le volontarie. C’è Michele, detto Miki, la guardia carceraria che convive con il demone del desiderio e l’ebbrezza della velocità; c’è il direttore dell’istituto Giacomo Parisi, un uomo gentile e garbato, che ha difficoltà a prendere decisioni; c’è Greta, l’educatrice penitenziaria, che deve affrontare la morte di un padre che non c’è mai stato; c’è Antonia con la sua voglia di scappare dalla misera monotonia della sua vita. C’è il cane lupo, che, imprigionato all’interno del cortile antistante al carcere, ulula alla libertà. Dunque, le sbarre non esistono solamente nella vita di chi è carcerato all’interno di una struttura penitenziaria, ma ogni vita è una gabbia, perché la vita è “il carceriere più crudele”.
In che misura queste sbarre, che ci rinchiudono all’interno di un luogo asfissiante e opprimente, sono state da noi costruite e quanto invece sono frutto della convivenza con il mondo esterno?


Siamo tutti più o meno ingabbiati dentro vite che ci appartengono fino a un certo punto, ci costruiamo prigioni fatte di compromessi, accettazione, rassegnazione, pigrizia, poco coraggio, rassicurazione; in pochi hanno la fortuna e il coraggio di aprire queste gabbie, di fare un passo per uscire dal recinto dentro il quale ci illudiamo di poter tenere sotto controllo le cose.

Un ruolo centrale all’interno del romanzo, soprattutto all’interno della comunicazione tra le madri carcerate e l’educatrice penitenziaria Greta, è il dialetto. Solo attraverso il linguaggio familiare del dialetto, Greta riesce ad aprire quel varco altrimenti difficile da creare con persone ostentatamente apatiche, spesso per orgoglio personale. Quanto, e in cosa, unisce il dialetto a Napoli? E perché, invece, Diego non si vede a parlare in napoletano, perché non gli riesce comunicare attraverso la lingua della sua terra?


Questo romanzo poteva essere scritto solo in dialetto. Alessandra Caccioppoli, psicologa e criminologa, che mi ha aiutato nel delineare questa realtà, e la figura di Greta, mi spiegava che il primo passo per conquistare la fiducia delle detenute è parlare la loro stessa lingua, rivolgersi a loro in dialetto, in napoletano. Il Napoletano qui fa da collante.

Il direttore dell’Icam a Lauro in cui ti sei recato, il direttore Paolo Pastena, persona garbata e disponibile, non ha il carattere del personaggio del tuo direttore, Giacomo Parisi. Da dove l’idea di descrivere questa figura di direttore così indecisa e dubbiosa sulle decisioni da prendere per la comunità?


Semplicemente dall’idea che tutti gli uomini sono indecisi, dubbiosi, forti e deboli, meschini e generosi, anche chi prende decisioni, anche chi aiuta, anche chi ha potere.

Questo è un romanzo sulla maternità, sulla difficoltà delle madri ad amare i propri figli. Su come lo sguardo materno rimanga dentro l’anima di ogni figlio per tutta la vita e lo guidi, anche quando la madre non c’è più. Lo sguardo materno è lo sguardo umano più potente al mondo. Gli occhi di una madre ti possono fare sentire amato, desiderato, ma anche sbagliato o addirittura, cosa che fa più male, a lei indifferente. Spesso, però, la madre non è in grado di comunicare al figlio il proprio amore, non è capace di dire al figlio: ti voglio bene, di dargli un bacio, di farlo sentire amato. È questo il caso di Miriam e Diego. Miriam non è capace di comunicare a Diego il suo amore verso di lui – pur amandolo tantissimo al tal punto che identifica la sua unica religione nella maternità – perché nessuno le ha insegnato ad amare il prossimo. Fa sentire il figlio inadeguato perché lei stessa si sente
inadeguata a vivere in questo mondo. Come si rompe questa catena? Come si può imparare – non ad amare – ma a comunicare l’amore?

L’ingranaggio non s’arresta quasi mai, purtroppo, siamo perlopiù quello che ci hanno insegnato a essere i nostri genitori, nel bene e nel male; chi è cresciuto nella diffidenza, sarà diffidente verso il prossimo, chi ha avuto poco amore, avrà difficoltà a restituirlo un domani a suo figlio, una volta adulto. L’ingranaggio si rompe perché per fortuna a volte qualcuno incontra un granello di sabbia, un essere umano illuminato e sensibile sul proprio
percorso che gli guarisce le ferite, gli modifica lo sguardo sulle cose, gli insegna altre e nuove dinamiche nello stare al mondo. Può trattarsi di un maestro, di un insegnante, di un parroco, un amico, un allenatore di calcio. Chiunque può salvarci, se sa come tendere la mano.

Nel libro, scrivi di “insegnanti codardi” che, sebbene abbiano il compito, e il privilegio, di indirizzare la vita dei loro alunni, invece, “la sfiorano appena” e non provano nemmeno a illuminarne la strada. All’interno di questa attenuata critica, c’è un riferimento a una tua esperienza personale?


Sì, non ho avuto un’infanzia semplice, e non ho mai incontrato sulla mia strada un’insegnante capace di guardare oltre i miei limiti e le mie difficoltà, nessuno che all’interno della scuola mi abbia mai teso quella mano. Un’insegnante può salvare le vite, se non lo fa, per pigrizia, indolenza, per poca sensibilità, è doppiamente colpevole.

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