Jago, contemporaneo senza tempo

La scultura è raffinatezza, cura del dettaglio, fatica – Amedeo Modigliani, malato di asma, si intossicava cavando le dolci curve marmoree. E le opere di Jago sono frutto di estrema dedizione a quest’arte. Non a caso Vittorio Sgarbi, critico dagli occhi esigenti, lo ha selezionato per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia.

Una mostra, quella di Jago a Palazzo Bonaparte a Roma fino al 3 luglio 2022, che ripercorre l’evoluzione artistica – in senso lato, dalla metodologia alle sensibilità umane sempre più visibili – del maestro. Dai sassi alla minuziosa lavorazione della Venere – un viaggio esplorativo della natura, di cui l’uomo è inevitabilmente parte. Un percorso che inizia proprio con la serie di sassi di marmo, per metà lavorati, e l’altra metà volutamente lasciata inalterata: un contrasto armonico, un incontro tra la mano dell’artista e dell’elemento primordiale della Terra. Qui si intende perfettamente la creatività di Jago, che sa dare vita alla propria immaginazione partendo da un blocco di marmo grezzo, di riprodurre le infinite possibilità della nostra mente.

Jago è cesura tra neoclassicismo e iperrealismo. La sua non è ricerca del bello, ma ricerca delle fragilità dell’uomo moderno. Abbandonare l’estetica per sviscerare la debolezza umana. Jago si fa così intermediario delle nostre paure e la scultura: un compito portato a termine magistralmente. Lo vediamo nella sua Venere, qui antagonista di quella di epoca classica dai lineamenti dolci, dalla pelle giovane, dai capelli boccolosi. Ora una figura anziana dal volto stanco prende il suo posto. Quasi con timidezza, copre il suo seno, ancora prosperoso, e dietro il suo sguardo cela l’imbarazzo di essere costantemente esaminata. Difficile poi non perdersi tra le infinite rughe su tutto il corpo frutto di un lavoro minuzioso, quasi ossessivo.

Jago esplora così l’accettazione del tempo, di cui, prima o poi, tutti siamo vittime. L’uomo, spogliato della propria gloria, torna alle origini, quasi contento. E’ così che Jago interpreta l’animo gentile dell’emerito Papa Benedetto XVI. Inizialmente raffigurato in veste papale e dallo sguardo serio, l’artista rimette mano alla figura in seguito alla sua abdicazione, intitolando l’opera Habemus hominum. Una svestizione in tutti i sensi. Ora Ratzinger non è che un uomo semi nudo dalla pelle grinzosa e dal seno molle, spoglio della sua autorità, ma anche dei suoi doveri; un sorriso compiaciuto descrive il suo stato d’animo, forse in pace con se stesso e con il suo vissuto.

Nelle opere di Jago si percepisce il tentativo, più che riuscito, di sviscerare le emozioni dell’essere umano, senza tempo e immutabili. Una ripresa stilistica neoclassica la ritroviamo nella Pietà, qui a parti invertite. Jago sceglie di rappresentare il dolore di un padre che ha perso un figlio; un dolore universale, in grado di superare i confini di spazio e tempo, così come la sofferenza di Maria di Michelangelo si fa portavoce della perdita che ogni uomo, prima o dopo, affronterà. Jago, ispiratosi alla foto di un padre siriano con in grembo il figlio morto nella guerra civile, decide così di dare voce al grido straziante di ognuno di noi quando la morte, ridendo, ci porta via chi amiamo di più.

Dicevo prima come la scultura sia, per me, l’arte più raffinata. E confermo. La scultura è rappresentazione della realtà mista all’immaginazione, è il collante tra natura e psiche, tra l’esterno e ciò che custodiamo, gelosamente, dentro di noi. Così Jago rende visibili, tangibili, le sue paure, insicurezze, il suo dolore, che rendono ciascuno di noi vivo. Ed è solo tramite la pratica artistica che riusciamo a esplorare, veramente, il groviglio viscerale che vive dentro di noi; che talvolta ci soffoca. Ed è proprio quando ci soffoca, che abbiamo la necessità di sputarlo. Così Jago, seppur con estrema delicatezza, rigetta il peso del tempo che lo attanaglia.

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