Poetico traumatico

Il 25 giugno 2022 si svolgerà, presso il Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) di Roma, l’evento dal titolo Psicoanalisi e stati primitivi/creativi della mente.

Sarà una preziosa occasione di dialogo con due esponenti della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), Mauro Manica e Maria Grazia Oldoini, autori di Fearful Symmetry. Spaventose simmetrie. Non voglio anticipare il lavoro di presentazione del libro ma mi piacerebbe soffermarmi su alcune considerazioni che mi hanno ispirato durante la sua lettura. In particolare, del capitolo Che cosa uccide la poesia? Antonia Pozzi e la lirica dei diversi aspetti del Sé.

Sguardi da inventare

Antonia è morta suicida a soli 26 anni. È stata una giovane poetessa laureata ad honorem all’Università di Milano, tormentata da un male di vivere fin troppo grande e nascosto per risultare sopportabile. Il capitolo di Fearful Symmetry a lei dedicato è tratto da un lavoro precedente di Manica, Intercettare il sogno, dove l’analista ci narra la vita di Antonia attraverso alcune sue poesie e lettere. Ma anche la sua tesi di laurea, dedicata alla Bovary di Gustave Flaubert, è ricca di spunti di riflessione che parlano del suo conflitto. Il conflitto irrisolvibile tra l’essere e il dover essere.

“Antonia cresce tra rigori formali e sostanziali dimenticanze”, scrive Alessandra Cenni nella biografia dedicata alla giovane potessa. E Mauro Manica ci riporta come Antonia sentisse una certa affinità con Tonio Kröger, protagonista dell’omonimo racconto di Thomas Mann. Qui l’autore parla “del difficile rapporto con la vita degli individui in qualche modo diversi […] soggetti artisticamente dotati che non riescono però […] a godere delle bellezze dell’esistenza più semplice e quotidiana”. Parole che mi hanno fatto pensare a un’altra “esistenza mancata”, per dirla con Binswanger: quella di Luisa Hoepli.

Ricordo molto bene Un’ora sola ti vorrei, il film documentario di Alina Marazzi – figlia della Hoepli – realizzato con foto, diari e pellicole d’epoca rinvenute in soffitta, a trent’anni dalla morte della madre. Una morte tragica, anche in questo caso, poiché Luisa muore suicida nel maggio del ’72, dopo anni di cure in Italia e all’estero.

Vedo delle analogie nel modo in cui Antonia e Luisa hanno patito il fisiologico contrasto Nature/Nurture, natura contro cultura. Noi posteri possiamo leggere tale conflitto grazie a un linguaggio comune, definito da Manica “rêverie dell’arte”: ciò che consente “di oltrepassare la mancanza che si realizza attraverso lo sguardo assente o invadente dell’altro”. Se per la giovane poetessa la rêverie, il tentativo di elaborare una mancanza, è stata fallimentare, mi viene da dire che per Luisa Hoepli il processo di elaborazione ha trasceso lo spazio-tempo. Il film della figlia Alina è la vittoria sul lutto, la possibilità dell’arte di recuperare — forse anche inventare — quello sguardo materno venuto a mancare fin troppo precocemente e incomprensibilmente.

Non di solo amore

La seconda considerazione che porto riguarda due sentimenti fondamentali: odio e amore. Non si tratta solo dei fuochi principali di ogni forma d’arte ma di due concetti cruciali fin dai primordi della psicoanalisi. Queste pulsioni primarie sono sopravvissute all’evoluzione teorica della disciplina, trovando un posto di rilievo anche nella “trasformazione” dello psicoanalista britannico Wilfred R. Bion – “l’eroe” di Fearful Symmetry. Nel suo modello, L (Love) e H (Hate), con carica + (plus) o – (minus), sono “i derivati emotivi, capaci di legare o unire, di quelle che Freud aveva ritenuto fossero le pulsioni”, segnala Manica in una nota.

Nel paragrafo Quale psicoanalisi per Antonia Pozzi?, l’autore immagina il ruolo dell’ipotetico analista che avrebbe potuto prendersi cura di Antonia. Lo fa riferendosi al pensiero del teologo e psicoanalista tedesco Eugen Drewerman. Questi, ne Il cammino pericoloso della redenzione, afferma: “È Dio che ama per primo”. E Manica aggiunge: “non può essere l’uomo, nella sua finitezza, a doversi meritare l’amore di Dio”. 

La metafora si può adattare a due relazioni fondamentali del lavoro analitico: infante-caregiver(s) e paziente-analista. Secondo l’autore, sarebbe questo amore che viene dall’alto, disinteressato, incondizionato, l’unico rimedio a una fame di affetti insaziabile come quella che ha consumato Antonia. Un amore che non nasce per nutrire il narcisismo di chi lo offre ma è amore per l’altro in quanto tale. Una verità da tenere a mente in ogni pratica di cura a cui aggiungo una postilla: se ciò vale per l’amore, così deve essere per l’odio.

Hate in the Counter-Transference (L’odio nel contro-transfert) è un articolo classico in campo psicoanalitico, firmato Donald W. Winnicott. Nel ’47, quando ancora le reazioni emotive dell’analista erano tabù per il mainstream della disciplina, affermare che è possibile provare un odio obiettivo per i pazienti ha del rivoluzionario. Ritengo che l’intuizione winnicottiana sia complementare al discorso sul genitore/terapeuta che ama per primo. 

Una mente di bambino, per crescere, ha bisogno di attingere alla materia prima, alle emozioni del genitore. Per imparare ad amare deve provarne l’amore e così è per l’odio. Non solo per poter odiare a sua volta, ma anche e soprattutto per poter accedere a un amore autentico, privo di sentimentalismi. Un amore sporcato dall’odio che implica riconoscere l’altro nella sua diversità, come limite con cui fare i conti, come scacco al nostro narcisismo. 

Forse una gabbia dorata, fatta di “rigori formali e sostanziali dimenticanze”, ha impedito ad Antonia di provare un odio autentico, che è rimasto una non-cosa. Ciò che James S. Grotstein, analista americano ed esegeta di Bion, definisce -K (minus knowledge): un irrappresentabile che distrugge il pensiero. Per Antonia Pozzi, il non essere vista nello sguardo d’odio e amore dell’altro ha precluso la possibilità di accedere a quei sentimenti anche dentro sé stessa. La sua poesia è stata il tentativo di smaltire quelle non-cose, per ridare vita a emozioni mai realmente vissute.

Questione di forma

Per la mia terza riflessione, prendo le mosse dalla vecchia diatriba tra psicoanalisti e scrittori, secondo cui i primi potrebbero servirsi dell’opera letteraria come strumento di analisi dei secondi. Freud stesso, ci ricorda lo psicoanalista inglese Charles Rycroft, aveva gettato il pomo della discordia, evidenziando le analogie tra pensiero onirico, pensiero creativo e nevrosi. Come se sognare e fare arte non fossero altro che forme patologiche attenuate.

Manica contrappone alla patologgizzazione dell’arte, sia il pensiero di Jung che quello di Imberty, entrambi per la “necessità di difendere una psicoanalisi dell’opera dal riduttivismo implicito ad una analisi dell’autore”. Io inserisco anche la prospettiva del succitato Rycroft, il quale, ne L’innocenza dei sogni, affronta la questione tirando in ballo nientemeno che Darwin: “L’immaginazione è una delle più elevate facoltà umane […] Sognare ne è il miglior esempio; come afferma nuovamente Jean-Paul [Richter], Il sogno è un’involontaria forma di poesia”. E proprio sulla poesia mi voglio soffermare, sul suo essere un “contenuto di forma” in contrapposizione al traumatico, inteso come informe irrappresentabile.

Lo scorso novembre 2021, al CIPA di Roma, è intervenuto alla tavola rotonda  L’immaginazione: funzione formativa ed impiego clinico, il candidato analista SPI Gabriele Cassullo. Nella lettura di un caso clinico, presentato alla luce del pensiero di Rycroft, Cassullo ha utilizzato un’immagine evocativa per rappresentare il concetto di traumatico: una pastiglia effervescente. O meglio, il processo dell’effervescenza stessa, in cui la pastiglia non esiste già più. Una metafora che rende bene l’idea che Antonia sia stata consumata, non tanto da una ferita specifica ma da una mancanza originaria, che ha prodotto incessantemente infiniti micro-traumi – le bolle dell’effervescenza.

Ma Rycroft è fonte di un’ulteriore ispirazione quando parla dell’artista, definito come colui che si considera “parte dell’universo, capace di assorbirlo nella sua interezza per poi ricrearlo per distillazione nel proprio lavoro creativo”. In questo ponte, tra l’artista e l’universo di cui si fa interprete, trovo un’analogia con l’idea di Manica di una “divaricazione tra l’Io (Sé) mondano dell’artista e l’Io (Sé) creatore”. Una visione a cui ho associato alcune tra le idee più suggestive di Jung: l’identità Psiche-Mondo, la compenetrazione di inconscio individuale e inconscio collettivo, la complementarità delle parti del Sé. 

Per Antonia, l’Io creatore della poesia assume il ruolo di salvatore dell’Io mondano, indebolito dal traumatico originario. E lo fa, scrive Manica, in nome del “primato della forma, come aspirazione al dare rilievo simbolico alle cose, ai fatti traumatici, agli elementi non digeriti e non sognati”. Aspirazione che, purtroppo, per Antonia Pozzi rimarrà tale.

Pittori, non chirurghi

Seguendo la sottile linea che separa e unisce poetico e traumatico, voglio ricordare il concetto di posizione trascendente, elaborato dal sopracitato Grotstein. In Un raggio di intensa oscurità, l’analista statunitense afferma: “Ritengo che la riverenza, il timor sacro e il vertice estetico siano altre manifestazioni di O”. Nella teoria di Bion, “O” è un concetto di una portata immensa, che ai fini della mia riflessione riassumerò così: ciò che è perennemente al di là dell’esperienza, un divenire mai esperibile in prima persona – “non si esperisce veramente O, si esperisce essere O”, scriveva Grotstein. 

In altre parole, O può essere un vuoto cosmico che toglie significato: l’esperienza non filtrata che uccide la psiche. Oppure può essere un vuoto potenziale, un processo di significazione e risonanza emotiva con l’altro e col mondo. Nella poesia e nell’arte in generale, tale posizionarsi al di là dell’esperienza risulta un passaggio fondamentale, sia per l’atto creativo sia per le emozioni che desta. Un diventare che vede opera, artista e osservatore vibrare all’unisono – l’at-one-ment di Bion.

A proposito di unisono, non posso non citare il lavoro di un noto analista SPI, Giuseppe Civitarese. Nel suo articolo L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi, torna l’idea che il sogno e la poesia rappresentano una “straordinaria opportunità, ogni volta, di avere più punti di vista sul mondo, tutte interpretazioni ma, in quanto condivise, non arbitrarie”. 

È significativa anche l’immagine che Civitarese propone dello psicoanalista: un pittore più che un chirurgo, “che deve rendere pensabile lo spavento e trasformarlo in esperienza estetica”. Lo spavento dell’incontro con l’altro inteso come realtà, in sé priva di senso/forma e per questo terrorizzante. Solo un’adeguata simbolizzazione, un “intervento estetico”, può dare forma all’informe e soddisfare quella necessità squisitamente umana di dare senso alle cose.

Ferite o finestre

Voglio concludere con una commemorazione e una domanda. Quest’anno, ricorre il centenario dalla nascita di Antonia Pozzi. Eugenio Giannetta, sull’Avvenire del 14 maggio 2022, cita la sua biografa Graziella Bernabò: “A volte la grande sensibilità si paga sul piano della vita, ma paradossalmente è una risorsa per il mondo. Per la sua sensibilità Antonia Pozzi si è aperta al dolore, ma anche alla bellezza del mondo”. 

Sono parole che parlano di una breccia nell’animo umano e della capacità unica del poeta di farne uso. Un lasciarsi contagiare dal dolore che trasforma quella breccia da ferita a finestra. Una finestra che affaccia su un mondo in cui vale la pena di vivere. 

E ora la domanda: se, come affermato da Manica e Oldoini, consideriamo la nuova psicoanalisi una psicoanalisi dei contenitori – ♀ (female) nel gergo di Bion. 

Se contenere, come ci ricorda Civitarese, “vuol dire dare un senso all’esperienza emotiva grezza” grazie a un contatto umano con l’altro.

E se “esperire essere O”, come scriveva Grotstein, significa vivere l’unisono di un’esperienza emotivamente condivisa.

Si può dire, allora, che un artista è colui che mette il proprio sognare al servizio del prossimo? 

Qualcuno che ci consente di incarnare, in un’emozione, concetti altrimenti destinati a vagare al di là dell’esperienza?

E un analista, di fronte all’indicibile della sofferenza altrui, non ha forse questo stesso compito?

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