«Avevi bisogno di soldi?», hanno chiesto a Vanni Santoni quando ha pubblicato la prima parte della sua saga fantasy La terra ignota. Una frase che, come lui spiega, rivela parecchio della mentalità italiana sulla narrativa “di genere” che l’incontro «Ferri del mestiere – lo specchio rivela molte cose» porta alla luce ai suoi spettatori.
Un piccolo, sobrio evento nella mattinata del caotico primo padiglione. I due protagonisti sono il già citato Vanni Santoni e Edoardo Rialti, scrittore e traduttore, fra i tanti, di opere di C. S. Lewis, George R. R. Martin e Joe Abercrombie; tre dei nomi più autorevoli del fantasy contemporaneo. Gli ultimi due, anzi, si possono accorpare a un sottogenere più specifico dal nome di grimdark: un fantasy che sconvolge il lustro epico e filo-mitologico dei fantasy alla Tolkien, contaminandolo di un realismo psicologico e di un’attenzione all’umanità e all’imperfezione morale. Lo stesso Rialti si professa subito un grande appassionato di Tolkien fin da piccolo, e con il celeberrimo autore inglese condivide una radice di studio filologico, sulla letteratura medievale e rinascimentale.
Una delle cose che raramente ci ricordiamo è che il fantastico e il fiabesco eran ben presenti nella nostra letteratura all’epoca di Dante e Ariosto, prima che il testimone letterario passasse alla letteratura carolingia e anglosassone. Nell’epoca contemporanea, ben poco di questo passato è rimasto e il fantasy di origine nostrana è perlopiù inesistente. Gli elementi di fantastico che prima dimoravano nell’immaginario culturale, ora, sono indissolubilmente slegati, non solo nei reparti delle librerie ma anche, purtroppo, nelle menti dei lettori e degli autori.
Il genere in particolare risente di un problema “di immagine”: l’immagine in questione è di essere un genere frivolo, un escapismo che rischia magari di risultare insapore e indifferente a viaggio concluso, e che di contro richiede (non sempre ma spesso) una disposizione del lettore a immergersi in un nuovo mondo, con regole e nomi e lingue e saggezza diverse, un equilibrio spesso e volentieri non costruito neanche abbastanza bene dagli autori. Insomma, spesso, viene da pensare: ne vale la pena? E la questione si complica quando una saga (e sì, la sovrabbondanza di trilogie e enne-logie è un altro deterrente per lettori più discontinui) non è associata a un autore anglosassone, essendo la lingua e la cultura medievale anglosassone un forte caposaldo del genere; la questione, specularmente, si complica quando queste opere lottano per essere quelle pochi grandi opere che per estesi periodi monopolizzano il mercato, con l’aiuto di ampie promozioni e budget stellari hollywoodiani, generando così un lungo strascico di copycats fino a trend concluso. La nostra attenzione verso il fantasy, per quanto possa esplodere e invadere a macchia d’olio ampie fette di cultura popolare, è spesso più caduca e resta sempre improbabile lasciare con esso un marchio nella letteratura.
In verità, una delle più grandi ombre nel fantasy del Novecento è quella proiettata dalla “montagna solitaria” che è Tolkien. Tolkien è, dice Rialti, «come un montanaro, che attraversa la neve ma poi ricopre i propri passi, impedendo ad altri di rintracciarne il percorso». Il suo è un destino letterario così potente e unico da sembrare impossibile da ripetersi. Scie di imitatori hanno provato nei decenni, altri lo hanno fatto senza nemmeno volerlo; nascono anche, ovviamente, un gran numero di detrattori, tra i quali l’autore Michael Moorcock, di cui Rialti cita la descrizione dissacrante del Signore degli Anelli come “la Bibbia mescolata a Winnie The Pooh”. In contrapposizione culturale al fantasy pulito, fiabesco, dalle tinte morali forti e ineccepibili, si racconta la violenza delle guerre, la crudezza dei conflitti fra personaggi più avidi, egoisti, moralmente “grigi”, ognuno spinto da un “fin di bene” diverso. “Sporcati dal peso storico”, romanzi come quelli di Martin (su cui nasce la serie iconica de Il trono di spade) tentano una sorta di congiunzione fra il fantastico e il – perlomeno – verosimile letterario, in cerca di dire qualcosa di più incisivo e più pertinente al nostro mondo.
E’ destino di un genere come questo, ancora giovane, esplosivo e a singhiozzi, grazie a specifici successi planetari dalla diffusione quasi istantanea, andare incontro a una mutazione velocissima e irreversibile. Un altro autore che Edoardo Rialti ha tradotto e che, per quanto poco conosciuto, sicuramente non è meno degno di nota è Richard K. Morgan: nato autore cyberpunk (un genere di fantascienza cupa e distopica, che attinge da atmosfere noir), compone nella sua saga Cosa resta degli eroi, storie ormai completamente immerse in questa evoluzione entropica del genere fantasy, ricche e sfaccettate di elementi e di temi post-moderni: un’ambientazione post-bellica e frammentata da conflitti passati, un ricco e potente aristocratico tormentato dal segreto della sua omosessualità, un guerriero barbaro imborghesito e messo in crisi da un viaggio in una florida e acculturata civiltà del sud, un’elfa lesbica ultima superstite di una stirpe di creature aliene e immortali costretta a servire in un regno non suo; tre solitudini intrecciate, tre personaggi volti a obiettivi diversi e destini diversi, in una fioritura di riflessioni profonde e contemporanee. Un incommensurabile divario fra questo fantasy smaccatamente iconoclasta e quello del passato, che nella pop culture attuale viene ormai contrastato come “fantasy tradizionale”.
Una delle cose che ci può saltare subito agli occhi, osservando quanto complesso e imprevedibile possa diventare il world-building di opere come queste, è l’incredibile lavoro che compete a un traduttore per traslare tutto questo nella nostra lingua, in modo non solo comprensibile o coerente con sé stesso ma anche coerente con le formule e le strutture dei vari strati di epoche storiche a cui il mondo fantastico fa riferimento. Edoardo racconta, questo spesso comporta il doversi appoggiare ad autori di epoche passate e, in particolare per questo genere, ai traduttori precedenti dell’opera stessa. Il mondo scritto può evolvere spesso per ogni volume di una storia continuativa, e l’autore deve tenere il passo e tracciare “in tempo reale” un percorso parallelo.
La triste ma innegabile condizione del fantasy come genere letterario d’importazione impone una responsabilità non indifferente sul ruolo della traduzione che, ci dice Susan Sontag, è “il sistema di circolazione della letteratura del mondo”. E’ il ponte fra i linguaggi e, di conseguenza, fra le idee. È importante, però, riconoscere che la traduzione è, Rialti ci ricorda, “l’atto critico fondamentale di un’opera”. Una storia da tradurre viene letta, riletta, stra-letta, la sua essenza viene spremuta fuori e rintracciata; i suoi temi vengono tratti e replicati di nuovo, reincarnati in un’altra forma, le sue asprezze linguistiche riproposte e rievocate in modo tale da restituire la stessa asprezza al lettore; il tutto senza che il lettore si accorga o senta una trasformazione. E’ un processo, un magico gioco alchemico, per certi versi non dissimile dalla magia di cui le pagine di un fantasy sono infuse.
E allora, alla fine di questo incontro, che ci ha offerto questo scorcio sul lato spesso lasciato invisibile del processo letterario, relativo a un genere che spesso e volentieri resta ugualmente invisibile, resto con una domanda: se riusciamo a riconoscere nella nostra letteratura contemporanea un gran potenziale e un’inventiva (impossibile non farlo dopo anche solo una giornata fra gli stand della fiera) nonché una grande “manualità testuale” nel trasportare quest’inventiva in una forma più che conforme agli standard internazionali, cosa ci ferma, oltre a uno snobismo culturale nazionale e alla mancanza degli appoggi commerciali di cui godono i nomi più blasonati, a contribuire anche noi a questa fetta di letteratura contemporanea? Forse è proprio alimentando questo dialogo, questo respiro caotico e collettivo fra i corridoi di questo Salone, che troveremo un qualche incantesimo di ispirazione.