Benedette le parole dette bene

Il Salone del Libro di Torino rappresenta un momento fondamentale per il mondo dell’editoria perché riunisce scrittori, editori, librai e lettori in un unico luogo, per esplorare insieme sfide e tematiche cruciali del panorama contemporaneo. La protagonista indiscussa dell’intero evento, però, resta la parola: il fulcro della comunicazione orale e scritta e il mezzo di espressione di pensieri e riflessioni, vera ricchezza dell’esperienza del Salone. 

Lo ha dimostrato chiaramente Ivano Dionigi nell’incontro del 20 maggio, durante la presentazione del suo nuovo libro: Benedetta parola. Dionigi si può definire una personalità nel mondo accademico italiano: è stato rettore dell’Università di Bologna fino al 2015 e dal 2012 è presidente della Pontificia Accademia di Latinità su nomina di Papa Benedetto XVI.  Egli, però, è primariamente un filologo, un amante delle parole, del loro significato e della loro etimologia. Probabilmente è anche per questo che, in ognuno dei suoi interventi, non manca mai un riferimento alla cultura classica su cui la nostra lingua si è costruita e da cui un latinista esperto come lui riesce a ricavare le coordinate per interpretare le strategie comunicative del mondo contemporaneo.

Il suo ultimo saggio, già a partire dal titolo, pone il lettore davanti ad una verità contemporaneamente confortante e minacciosa: la parola è uno strumento potente; può essere bene detta e allo stesso tempo male detta; è il mezzo con cui i popoli stipulano la pace ma anche lo stesso con cui si dichiarano guerra tra loro. Proprio per questo, Dionigi sottolinea che è una necessità, anzi, quasi un dovere, conoscere il significato profondo di ciò che si dice e soprattutto, di ciò che si legge e si ascolta. 

L’incontro con questo autore è stato molto più che una presentazione del suo libro; con gli interventi dell’illustre filosofo Massimo Cacciari e grazie alla guida esperta della giornalista Simonetta Fiori, il pubblico presente è stato accompagnato in un viaggio alla scoperta del peso e dell’importanza della parola e degli effetti del suo uso, forse troppo superficiale, nella società attuale. 

Il viaggio è partito da un’asserzione che è stata la base di tutta la conversazione: «La parola non mente» ed entrambi gli ospiti intervenuti si sono dimostrati irremovibilmente d’accordo su questo punto. Ogni parola, infatti, possiede dentro di sé un significato che si rifà inevitabilmente ad un oggetto concreto, il quale viene, appunto, definito da essa. Certo, come si è sottolineato più volte nel corso della discussione, la parola non è la cosa che descrive, tanto è vero che ogni lingua definisce uno stesso oggetto con sequenze di suono diverse. Per capirci meglio, prendiamo ad esempio un bicchiere: un inglese lo chiamerebbe glass, un francese verre, uno spagnolo vaso ma tutti indicherebbero con queste parole lo stesso contenitore da cui bere liquidi. Sempre per essere più chiari, l’esempio opposto riguarda i nomi di persone: se qualcuno si chiama Laura verrà identificata così in qualsiasi lingua perché è lei che ha chiarito la sua identità con questa parola. Un bicchiere non può parlare per dirci come si descriverebbe e gli unici che forse provano ad avvicinarsi il più possibile alla sua verità, secondo Cacciari, potrebbero essere i poeti; la poesia, infatti, è l’unica forma di comunicazione che prova ad usare le parole per descrivere le cose esattamente per come le cose stesse si descriverebbero. 

Si tratta di un punto di partenza particolarmente complesso ma è un fondamento filosofico che, in realtà, ha rivelato alcune importanti verità del nostro tempo. Ecco perché la seconda tappa del viaggio è stata proprio la politica. La parola è un mezzo fondamentale per la politica odierna in cui tutti quotidianamente siamo bombardati da idee, concetti, opinioni e proposte. Ritornando al concetto precedente, se la parola è portatrice di una verità anche se non della realtà assoluta, colui o colei che parla bene deve sempre tener conto di questo rapporto, ricordando che tutto quello che dice deve avere un riscontro nella vita reale. Il problema è che, secondo Dionigi, oggi assistiamo ad un “divorzio tra le parole e la realtà”, un divario che solo la filologia può colmare perché il suo compito è esattamente quello di identificare la realtà nel significato della parola attraverso la sua etimologia. 

Una personalità di spicco, soprattutto con un potere politico che parla senza tenere conto del rapporto con la realtà ma vuole solo convincere qualcuno per preservare il proprio potere, quindi, non è altro che un demagogo. Si tratta di chi con la parola può far scoppiare una guerra, di chi modifica il significato delle parole per sottoporle ai suoi interessi. Come hanno fatto notare i due studiosi, già nell’antica Grecia o nella Roma di Cicerone esistevano questi individui e il capitolo sulla Guerra del Peloponneso nell’opera di Tucidide lo afferma chiaramente in apertura: la perversione delle parole che stava dilagando ad Atene era un chiaro segno premonitore della guerra in arrivo e, per ottenere la pace, sarebbe stato necessario stato necessario ritornare alle parole buone (traduzione dall’aggettivo greco euphron). 

I politici oggi, creano la guerra perché ne modificano il significato reale delle parole, un esempio lampante? Chiamare “operazione speciale” l’invasione di uno stato. I vocaboli Operazione e Speciale non sono portatori del significato reale di quello che è successo ma è necessario conoscere il loro significato per poter comprendere la manipolazione che si tenta di attuare. 

Ivano Dionigi, quindi, attraverso la filologia, si fa portatore di due lezioni fondamentali: la prima è che bisogna conoscere le parole ed usarle con coscienza; la seconda è che le parole sono un mezzo di estrema potenza che, se usate bene, possono addirittura fermare le guerre. 

Per questo, in chiusura, è stato mandato un messaggio di speranza soprattutto per i ragazzi più giovani presenti in sala. Simonetta Fiori ha chiesto al professore quale fosse, secondo lui, una parola da cui ripartire per la società nel suo stato attuale e la riposta è stata «Bisogna contestare». Contestare, infatti, deriva dal latino ed è una parola composta da Cum e Testis; si utilizzava, in particolare, per chiamare un testimone nel corso di un processo. In italiano si è costruita un’accezione un po’ negativa del significato, in realtà, secondo Dionigi, è necessario conoscere ed essere testimoni degli eventi che accadono, siano essi positivi per condividerne la gioia, siano essi negativi, per denunciare ingiustizie e bruttezze.

Il viaggio alla scoperta della parola ha numerosissime tappe ed il saggio Benedetta parola è una guida preziosa per chiunque volesse intraprenderlo. Non si tratta solo di approfondire concetti in materia di filologia, è principalmente un invito ad avere più consapevolezza nella comunicazione per cercare di colmare la crepa tra parole e realtà. 

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