Al Festival internazionale del Giornalismo (IJF) — il più grande evento annuale dedicato ai media, in Europa— ci si informa e si trattano molti temi diversi.
Che cosa hanno in comune le donne dell’Afghanistan, dell’Africa e dell’America latina, a parte il fatto di essere donne? Hanno in comune la forza, la tenacia, la determinazione tipiche di quel sesso definito “fragile” ma che, fragile, non lo è mai. Sentendo parlare di queste donne, mi è tornata in mente la favola che il mio vecchio maestro di Judo, alla fine dell’allenamento, raccontava a noi piccini: «Il Judo è l’arte che deriva dal salice piangente, che sotto il peso della neve si piega ma non si spezza», diceva. Ecco, questo è ciò che sono le donne di questi paesi martoriati dalla guerra. Guerre che esistevano — ed esistono — solo ed esclusivamente finché esposte alla luce dei riflettori ma destinate a sparire una volta escluse dal loro raggio. O almeno per noi.
In America Latina, ad esempio, ci viene raccontato da Lucia Capuzzi — giornalista pluripremiata dell’Avvenire — di donne che rischiano la vita per difendere il territorio, perché lì l’ecologia non si fa “per moda”, non si fa per passatempo; si fa per salvare il luogo in cui si è0 nati e cresciuti, soffocati dal denaro sporco destinato a generare un ulteriore sfruttamento. Ci parla di donne che hanno preso in mano la situazione; di donne che si sono ritrovate con figli, mariti, parenti scomparsi da un giorno all’altro — i cosiddetti desaparecidos (che, fra parentesi, sono più di cento mila) — e, trovandosi nell’impossibilità di chiedere aiuto alla polizia locale, la quale fa riferimento ai vari cartelli della droga, si sono arrangiate. Hanno chiesto aiuto a professori e agli antropologi; hanno studiato, fatto ricerche e, infine, trovato le fosse comuni che, ovviamente, hanno cercato di tenere nascoste alla polizia, in modo da evitare che le prove venissero inquinate.
Della forza delle donne in Africa, invece, ce ne parla Emanuela Zuccalà — giornalista, scrittrice ma anche regista — che si occupa principalmente dei diritti delle donne, in particolare delle mutilazioni genitali femminili. Una donna che si trova in Africa, oltre al fatto che sarà sempre discriminata per essere nata “dalla parte sbagliata”, avrà sempre un grado di istruzione più basso rispetto a quello degli uomini; morirà per motivi futili, quali il non poter correre all’ospedale per affrontare un parto podalico a causa del coprifuoco, dovendo scegliere fra la morte per mano altrui o per dare alla luce il proprio figlio; verrà cambiata per sempre da quelle pratiche che dovrà subire per rimanere pura fino al matrimonio combinato, molto probabilmente, con un uomo che supera di gran lunga la sua età infantile.
Barbara Schiavulli, invece — corrispondente di guerra e scrittrice — che si è trovata in paesi come Iraq, Israele, Pakistan e Afghanistan, ci illumina su come l’Afghanistan sia cambiato da quando i talebani hanno ripreso il controllo di un paese che sembrava ormai assuefatto dalla cultura occidentale; che era diventato parente dell’America, artefice di tante promesse che poi non ha mantenuto. Per quarant’anni c’è stata la guerra, ci sono stati gli eserciti provenienti dai più svariati paesi, venuti a difendere le persone — uomini e donne — dagli estremisti talebani. Negli ultimi vent’anni, le donne sono arrivate a conquistare dei piccoli traguardi. In Italia, infatti, una donna che guida una macchina, un camion o un taxi è la quotidianità; una donna che studia, si forma e va all’Università, vede queste attività come se fossero quasi un dovere. Alle Olimpiadi, le nostre donne vincono da decenni delle medaglie. Per le donne Afghane, invece, è stata una conquista dell’ultimo ventennio.
Con il ritorno dei talebani, a giugno, ci si aspettava che le donne avrebbero perso alcuni di quei diritti acquisiti, eppure, nessuno si immaginava sarebbero stati così tanti. Ora le donne non possono più guidare, anzi, da sole, non possono allontanarsi più di settanta kilometri da casa; le vedove, che per ovvi motivi rappresentano il 30% della popolazione totale, non possono lavorare. Giornalisti, artisti, scrittori, compositori non possono più esercitare. Sembra di trovarsi in un paese medioevale.
Quando scoppia una guerra, in qualsiasi parte del mondo, ci si trova davanti ad un processo di militarizzazione del paese: l’uomo viene visto come l’eroe che prende e va a combattere, per difendere il proprio paese dall’invasore; la donna come la povera moglie che rimane a casa, a cercare di salvare i figli; come una vittima.
Questo è un fatto che oggi, nel pieno del conflitto, ricontraiamo anche in Ucraina.
In quattro e quattr’otto, infatti, sono state cambiate leggi per aiutare i profughi (quasi sessanta mila in Italia fra donne e bambini); e arrivano aiuti umanitari da tutto il mondo fra soldi, armi e associazioni. Ma perché per l’Ucraina sì, e per il resto del mondo no? Perché in un paese confinante con l’Europa sí e per il Sud Sudan, dove è da poco iniziata una nuova guerra, no? Esistono quindi delle guerre di serie A e di serie B? Esistono delle persone di serie A e di serie B?
Oggi, nemmeno delle guerre dell’Africa si parla più. Anzi, si parla di giovani ragazzi muscolosi che, dopo essere arrivati in barca, una volta scesi a terra, per prima cosa chiedono del wi-fi. Quei ragazzi di cui si indignano in tanti, però, molto probabilmente vengono dal Burkina Faso o dal Sud Sudan, oppure dal Mozambico, paesi dove recentissimamente sono iniziate guerre di cui, ovviamente, non si parla. E tutto perché le notizie sono concentrate in un unica direzione.
In conclusione, l’unica guerra che dovremmo condurre — invece di raccontare in maniera sbagliata quelle degli altri — è quella che dovremmo condurre qui, contro un modo di fare giornalismo, non solo sbagliato ma anche corrotto.