“Siamo pronti a compiere insieme ai nostri alleati tutti i passi necessari. E abbiamo un accordo molto chiaro con il governo degli Stati Uniti sul transito del gas e sulla sovranità energetica in Europa. Abbiamo già deciso di sostenere l’Ucraina […] Ma siamo anche consapevoli di dover mantenere una necessaria ambiguità strategica. Ciò è fondamentale per evitare che la Russia vada in una sala computer ed inizi a calcolare se sarà troppo costoso o meno invadere l’Ucraina.” Con queste parole al Washington Post, il Cancelliere tedesco Olaf Scholz segna l’inizio della sua visita ufficiale a Washington: Il tema fondamentale, che da mesi vede la diplomazia internazionale lavorare per una soluzione, è l’evolversi della situazione al confine tra la Russia e l’Ucraina, principalmente nella regione del Donbass.
Secondo fonti ufficiali, la Russia ha stanziato circa 100.000 uomini lungo la linea del confine, armati con mezzi pesanti e pronti ad entrare nel territorio ucraino una volta ricevuto l’ordine. Un tale dispiegamento di forze da parte della Russia, che nel recente passato ha precedenti solo nell’occupazione della Crimea del 2014, è la conseguenza dell’attivismo del Presidente ucraino filoccidentale Zelensky, che da inizio mandato ha amplificato gli sforzi nel tentativo di far entrare il proprio paese nella NATO. Ufficialmente, tale attivismo sarebbe stato il motivo della risposta militare di Mosca, preoccupata che un tale evento sia in conflitto con il principio della “indivisibilità della sicurezza in Europa”. Tale termine, istituito per la prima volta negli accordi di Helsinki del 1975, stabilisce in termini vaghi che la sicurezza di uno stato è inseparabile da quella di altri stati presenti nella stessa regione. Formalmente, il Cremlino starebbe agendo solo garantire la propria sicurezza interna; realisticamente, svariati analisti sono concordi che il principale obiettivo di Putin sia un altro: quello di riaffermare una “zona di influenza” russa contrapposta a quella europea ed occidentale.
La partita sull’Ucraina diviene ancora più complicata quando si prende in considerazione il tema energetico europeo. Allo stato attuale, più del 50% delle forniture di gas verso l’Europa derivano dai gasdotti russi Nord Stream1, Yamal e Tag, con questi ultimi due che transitano attraverso Ucraina, Bielorussia e Polonia. Il Cremlino ha poi un altro asso nella manica, quello del gasdotto sottomarino Nord Stream2, opera pensata per collegare la Germania direttamente con il proprio maggior fornitore energetico: in questo modo l’Europa avrebbe raggiunto più dei due terzi del proprio fabbisogno senza pagare dazi o tasse ai paesi dell’Est, attraverso cui le precedenti opere transitano. Sebbene questo non sia ancora entrato in funzione, un potenziale blocco del progetto graverebbe pesantemente sull’intera economia continentale. In tutto ciò, il prezzo del gas naturale spot (all’ingrosso giornaliero) è incrementato da 21 a circa 120 euro da dicembre, ponendo forti pressioni sulle imprese europee. Putin ha dunque trasformato il gas in uno strumento geopolitico e negoziale, riducendo le quantità trasportate in Europa e scatenando un caro bollette continentale che incide in maniera profonda su famiglie ed imprese, nonché sul ritorno dell’inflazione nel vecchio continente. Il messaggio è chiaro: non interferite in ciò che viene considerato come affari interni russi.
La risposta diplomatica e militare della NATO e degli Stati Uniti non si è fatta attendere: la Casa Bianca ha iniziato silenziosamente a lavorare con società minerarie e fornitrici di gas per identificare possibilità di forniture alternative verso l’Europa, promettendo di avere soluzioni concrete qualora la situazione precipitasse e coordinando poi una risposta con gli alleati europei che si fonda su sanzioni economiche “di portata mai vista” per la Russia qualora inizi un’invasione. Il segretario della NATO Stoltenberg ha fatto intendere che l’alleanza atlantica è pronta a reagire ad eventuali aggressioni, sebbene la strada diplomatica sia considerata ancora la via maestra per raggiungere una soluzione. In questo senso, l’entrata in scena della Turchia di Erdogan nel dialogo con il Cremlino rafforza la posizione occidentale. Il Regno Unito e la Germania hanno poi dichiarato di essere pronti ad inviare truppe, navi e rinforzi rispettivamente nei paesi baltici dell’Estonia e della Lituania, anch’essi membri NATO e preoccupati dall’attivismo militare russo e delle sue potenziali conseguenze. Per finire, il Presidente francese Macron è volato a Mosca per un faccia a faccia con Putin, nel tentativo di avanzare il dialogo.
Da tale quadro, tuttavia, emergono due segnali molto chiari. La risposta transatlantica è stata probabilmente dettata più da ragioni di politica interna dei propri membri chiave che da una visione strategica di ampio respiro: la SPD in calo nei sondaggi in Germania, le elezioni presidenziali francesi, l’agenda politica interna bloccata di Biden sembrano essere i veri motivi ispiratori di una rinnovata fiducia nel ruolo della NATO. Il dibattito su temi più profondi e decisivi, come il vero ruolo degli Stati Uniti come (attuale) potenza egemone mondiale e la necessità dell’Europa di avere politiche di difesa ed energetiche indipendenti, sembra essere stato rimandato a data da destinarsi. In secondo luogo, l’Occidente e la NATO, di fronte al crescere della serietà della situazione in Ucraina, si sono mossi con una strategia esclusivamente di reazione: a decidere le prossime mosse sarà comunque sempre e solo Putin. A riprova di ciò, il recente accordo stipulato con la Cina per la fornitura di gas russo, dal valore di 30 miliardi e da saldare in Euro. Ironia della sorte.