Quando i principali leader di partito, prima di Natale, venivano interpellati sul Quirinale, rispondevano che se ne sarebbe parlato a gennaio. Anche il 31 dicembre, tra un bicchiere e l’altro, avrebbero risposto così, pur di aggirare l’interrogativo. “Parlato”, infatti, e non discusso apertamente. Si discute nel sotterfugio, si chiacchiera, si paventano ipotesi improbabili per distogliere l’attenzione di cittadini e avversari. Così va l’elezione più importante del Paese: un gioco di retroscena anziché di scena.
La candidatura – da parte degli altri – di Silvio Berlusconi ha dato inizio alle danze del circo quirinalizio. A prima battuta, nessuno gli dava ascolto. Forse neppure lui ci credeva tanto. Ora, invece, che qualche chance potrebbe averla, sinistra e certa stampa si sono sollevate al grido di “lui no”. Enrico Letta ritiene che Berlusconi sia un candidato irricevibile, mentre in passato, quando il Cav votò la fiducia al governo dell’attuale segretario democratico, l’opinione era diversa. Dello stesso parere Giuseppe Conte, il cui partito, però, al governo con Forza Italia c’è ben volentieri. Le incognite di Berlusconi sono due: in primis, come spesso è accaduto nella sua storia politica, i nemici di casa; in secondo luogo il Gruppo Misto, terra parlamentare di mezzo dove è apparentemente facile attingere, ma il segreto dell’urna potrebbe rivelarsi beffardo.
Al “retroscena Berlusconi” si sono aggiunti Mastella e Verdini. Il primo gli ha suggerito, con un messaggio tra il serio e il faceto, di far “segnare le schede”, così da riconoscere i votanti. Il secondo, invece, ha asserito che il kingmaker della faccenda dovrebbe essere Salvini, forse per rafforzare il legame parentale, forse per gonfiare di presunzione il già tronfio segretario leghista. A chiusura del gioco delle parti, è intervenuto perfino Roberto Fico, il quale ha ricordato che nessun sotterfugio sarà possibile sotto la sua rigida attenzione.
Dalla parte sinistra dell’emiciclo, grillini inclusi, è pura ipotesi e oscuro retroscena. Il PD sa chi non vuole, Berlusconi, ma non sa chi vuole – grande paradosso che abbraccia spesso la politica contemporanea. I 5 Stelle, divisi da conflitti intestini non solo sul nome del Capo dello Stato, fino a qualche settimana fa volevano “una donna”, chiunque fosse. È grave che il partito di maggioranza relativa in Parlamento non abbia ancora espresso un’indicazione precisa; gli elettori che hanno consentito al M5S di ottenere percentuali elevate dovrebbero avere il diritto di sapere quale sia l’idea del proprio partito sul Colle. Soprattutto, Conte non ha gradito le parole di Bettini: “più leader di governo che capo di partito”. Secondo alcuni, si starebbe per rompere il “patto del monolocale”, espressione derivante dall’ex dimora del deus ex machina dei democratici romani, cornice di incontri frequenti. Se così fosse, sarebbe difficile una convergenza tra i due partiti in chiave Quirinale, senza la quale, però, le probabilità di eleggere un presidente ampiamente condiviso risulterebbero ancor più inferiori. Al netto, invece, delle dichiarazioni dei leader, genericamente simili: “occorre un presidente condiviso da tutti”; “occorre un nome per il bene del Paese”. Tutto vero, tutto giusto, ma non è con le spaccature che ci si arriva, e questo non viene detto.
Emerge pertanto un discrimen tra esternazioni e realtà. Già le confessioni pubbliche non raccontano nulla di importante, puro vaniloquio, per di più la realtà dei fatti smonta le teorie di pace e serenità nella scelta condivisa.
Se solo durante i mesi scorsi, e anche oggi, la scena fosse prevalsa sul retroscena, probabilmente avremmo un quadro quirinalizio più chiaro. La trasparenza non è dovuta tanto nei confronti di analisti e cronisti, che dei retroscena, in fin dei conti, si appassionano anche. È invece un obbligo morale verso gli elettori, che in tempi di crisi sociale, economica e sanitaria devono saperne di più sul futuro Presidente della Repubblica. Il retroscena continuo è altresì motivo di disinteresse da parte dei cittadini: continuare a nascondersi slega il rapporto tra elettori ed eletti. E così nel collegio principale della Capitale, alle elezioni suppletive, vota appena l’11% degli aventi diritto. Perseverando nel problema, nel 2023 rischieremo di eleggere un parlamento a minoranza.