Luca Balestrieri e “le Piattaforme del mondo”

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I giorni della fiera “Più libri Più liberi” per la piccola e media editoria, sono stati giorni intensi di grande fervore culturale, dibattito, di incontro tra colleghi, amici e, più in generale, tra persone.

L’atmosfera, resa suggestiva già soltanto dallo spettacolo della Nuvola dell’Eur, si è impregnata di quella fragranza che solo dall’incontro coi libri può nascere. Una fragranza di cultura, certo, ma anche di confronto tra esseri umani che si scambiano quattro chiacchiere davanti ad uno stand, davanti ad un libro, durante una delle tantissime presentazioni che si sono tenute in quei giorni.

È stata sicuramente un’esperienza formativa ed emotiva, che ci ha dato conforto e sollievo: ci è sembrato di tornare alla normalità – nonostante le mascherine – dopo un periodo in cui il contatto umano ci è stato vietato. È in questo clima di condivisione e massima espressione del sé che si è tenuta la presentazione del libro “Le piattaforme del mondo” di Luca Balestrieri.

Dare spazio al cinema, in tutte le sue sfaccettature e declinazioni, è stato fondamentale soprattutto nell’ottica di ridare vita ad un settore che è uscito da un periodo di crisi fortemente – e gravemente – danneggiato.

Quello su cui si è soffermato Balestrieri è stato il tema del capitalismo all’interno delle serie televisive. Insieme a lui, quindi, abbiamo riflettuto sulla dimensione del consumo nei prodotti mediali. Secondo Balestrieri stiamo vivendo una fase di grande discontinuità rispetto al passato, definendo – non a torto – gli anni Venti del Duemila come anni di grande rivoluzione della produzione e del consumo mediale. Per rendere più chiara questa sua affermazione, l’autore fa l’esempio delle serie televisive coreane che vengono diffuse sempre di più da piattaforme come Amazon e Netflix.

Queste piattaforme, così facendo, aprono uno squarcio su realtà diverse rispetto a quelle cui siamo abituati, ma è pur vero – come ci tiene a sottolineare Balestrieri – che le serie televisive coreane promosse da Netflix sono totalmente diverse dalle serie televisive coreane classiche. Chiunque sia avvezzo alla serialità coreana si renderà sicuramente conto di come le serie su Netflix pongano l’accento su elementi che, solitamente, nelle serie classiche coreane (reperibili su piattaforme quali Viki Rakuten) non ci sono o vengono appositamente oscurati.

Uno dei temi per eccellenza è la violenza: nelle serie coreane classiche c’è sicuramente l’elemento violento, ma mai troppo violento da scuotere la sensibilità degli spettatori (ecco, quindi, che le armi e le ferite vengono oscurate, il sangue lo si ritrova in quantità ridotte, e così via); nelle serie che si trovano sempre più spesso su Netflix, invece, la presenza di armi, sparatorie, inseguimenti tra gangster diventano il fulcro della nuova serialità coreana.

Ma perché – si chiede Balestrieri – Netflix sta investendo così tanto in una serialità coreana diversa e rivisitata? La risposta sembra scontata, ma non lo è: Netflix investe e guadagna moltissimo dai prodotti che vengono dalla Corea ma, allo stesso tempo, cerca di offrire prodotti che possano essere apprezzati nei Paesi d’arrivo che sono, soprattutto, Paesi occidentali avvezzi alla violenza e, anzi, se un film o una serie si presentano totalmente privi di scene di violenza – anche minima – risulta quasi strano.

Il prodotto coreano, quindi, viene rivisitato e riadattato, pur tuttavia mantenendo la sua specificità: si tratta sempre di prodotti che mostrano la cultura coreana, così diversa dalla nostra e che, forse, proprio per questo ci attira di più. Troveremo i modi di fare coreani, i loro modi di approcciarsi agli altri, la loro cucina e le loro credenze e abitudini.

Il tutto, però, in una chiave diversa (e qui Balestrieri, per renderci più chiaro il discorso, ci fa l’esempio della pizza italiana a Londra: si tratta pur sempre di pizza, ma di certo in chiave rivisitata). Dall’esempio del fenomeno di serialità coreana, Balestrieri arriva al fulcro del suo discorso: si sta verificando, in questi anni, una totale riorganizzazione dell’industria a livello globale.

I rapporti vengono totalmente ridisegnati anche e soprattutto perché cambiano i rapporti con le piattaforme. Non ci sono più sistemi nazionali di produzione mediale, che hanno costituito una vera e propria macchina culturale di mediazione tra culture locali e processi globali.

Non ci sono più, o quantomeno non hanno più la stessa importanza e predominanza di prima, perché esse vengono oscurate e soppiantate dai sistemi globali di produzione mediale, che portano ad una differenziazione minore – seppure non nulla – e ad una maggiore omologazione tra i diversi prodotti.

È indubbio che il mercato si stia allargando – non solo quello cinematografico – ma il problema, come ci tiene a sottolineare A. Minuto Rizzo, moderatore della presentazione, non è che il mercato sia troppo grande. Il problema sorge, invece, nel momento in cui questo mercato non è più contendibile (basti pensare a piattaforme come Facebook e Google: è impossibile crearne di nuove che vadano a sostituire totalmente le originali). Si sta arrivando progressivamente a quello che Balestrieri e Minuto Rizzo definiscono one-stop shop, ovvero un enorme contenitore online in cui gli utenti possono trovare servizi e prodotti tra i più disparati.

L’esempio lampante è quello di Amazon che offre contemporaneamente siti di vendita online, di visione di film, di ascolto di musica, di lettura di libri digitali, e così via. I media, in questo modo, stanno assumendo sempre più il ruolo di educare le masse. Da qui all’utilizzo dei media come strumento di propaganda geo-politica, poi, il passo è veramente breve: la politica, infatti, arriva ad un vero e proprio reclutamento dei media al solo scopo di alimentarsi e crescere.

Il problema, in base all’angolazione da cui viene osservato, ha diverse sfaccettature: per gli Stati Uniti è decisamente pericoloso che piattaforme come Twitter abbiano un potere tale da poter persino bannare un ex POTUS; per l’Europa, invece, il problema fondamentale è che queste piattaforme siano americane e, di conseguenza, non potranno mai essere regolamentate in maniera capillare, proprio perché non sono di proprietà europea. Balestrieri, quindi, a questo proposito torna al caso della Corea che, in venti anni, nonostante sia diventata una grande potenza nel panorama globale, nonostante sia sempre più presente nel mondo occidentale e nonostante Netflix investa mezzo miliardo di dollari all’anno per avere i suoi prodotti, resta comunque un Paese con la propria specificità. Un Paese che ha saputo affermarsi e farsi strada nel panorama mondiale grazie ai propri mezzi: basti pensare che i coreani non usano Google, così come non usano i social che utilizza tutto il mondo occidentale. Per Balestrieri la Corea – e in generale tutto il mondo asiatico sviluppato, eccezion fatta per la Cina – è un esempio da seguire.

Esempio di come ci si possa inserire a pieno titolo nel panorama internazionale e mondiale – dal punto di vista cinematografico, ma anche musicale e tecnologico – pur senza omologarsi e, di conseguenza, senza perdere la propria specificità.

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