Le opere di Fabrizia Ramondino, nonostante la sua cospicua produzione letteraria e artistica, trovano difficoltà ad ottenere la giusta considerazione.
Passaggio a Trieste (2000)è l’opera che racchiude la sua poetica, un diario di bordo, scaturito dall’esperienza vissuta presso il Centro Donna Salute Mentale di Trieste: la scrittrice unisce quell’esperienza dolorosa al ruolo curativo svolto dalla scrittura, con la quale tratteggia delicatamente le forme di esistenza poste ai margini della società. L’interesse della scrittrice di dar voce al rapporto fra cura e scrittura scaturisce dal suo continuo e intenso pellegrinaggio esistenziale, partendo da Napoli, città natale, che si dirama in variegate destinazioni assorbite dall’estro lirico e dove la scrittrice trascorre il tempo della sua vita, ancorandosi al suo quaderno, al suo diario. Opera e vita s’intrecciano inevitabilmente e, dunque, il viaggio all’interno dell’esperienza di Fabrizia Ramondino parte dal romanzo d’esordio Althénopis (1988), attraversando il rapporto di frattura, di rovina e di ricostruzione, tra madre e figlia, sino a giungere all’ultimo romanzo, uscito postumo, La via (2008), in cui l’approdo dell’uomo protagonista può essere concepito come punto d’arrivo della stessa scrittrice, che spira il suo ultimo respiro cullata dall’abbraccio del mare da lei tanto amato, quello di Gaeta, da sempre rifugio delle sue crisi interiori, prima di andare alla deriva e mai più ritornare.
A partire dalle inquietudini che si agitano nel suo animo, si addentra nel tunnel emotivo dell’esperienza triestina, la quale è una discesa negli inferi della solitudine: dalla condivisione di esperienze esistenziali, elevate ad esempi di disagio e di sofferenza, giunge alla cura degli altri, che è anche cura di sé, attraverso una scrittura dolorosa, capace di addentrarsi nella psiche umana, di abbracciare il dolore, di addolcire le asprezze della vita, di sprofondare nel buio degli abissi emotivi e di risalire in superficie e rinascere.
Trascorre anche molto tempo da sola, prediligendo il solo contatto con il mare, tra antiche roccaforti e la potenza dei flutti marini, cercando di trovare un punto di fuga per contrastare la depressione e la dipendenza dall’alcol e affidando il proprio malessere alla scrittura.
Nella sua poetica emergono anche i suoi assilli più gravi: l’irrequietezza e il nervosismo, derivanti dal difficile rapporto con il mondo. Turbamento e disagio insidiano da sempre ogni scelta umana, nelle relazioni dei soggetti con il mondo, con gli altri soggetti e con l’insieme sociale: la letteratura, interrogando il malessere psichico, cerca di dare voce all’infelicità, alla deviazione, all’assenza, all’impossibilità. La sua scrittura è sontuosa, penetra nelle buie viscere, conduce l’interlocutore dove vuole, anche negli abissi della psiche, intreccia fili di parole con una maestria imprevedibile e si apre al complesso mondo delle emozioni dei cuori dolorosi.
Attraverso la narrazione delle varie storie pullulanti di sofferenza, la scrittrice realizza una doppia guarigione e un doppio riscatto: cura gli altri e, nel frattempo, si riconcilia con se stessa, dando libero sfogo ad attese e tormenti, addolcendoli.
La scrittura terapeutica è, dunque, intesa come catarsi, un’auto cura: fissare su carta le testimonianze delle donne del Centro dona alla Ramondino la possibilità di immedesimarsi nell’altrui dolore, per diventare più consapevole dei propri mali, per trovare supporto, per colmare vuoti e incertezze, per accorciare distanze emotive e per condividere frammenti di coraggio. Scrivere aiuta ad accedere alle memorie, anche sepolte, e permette di trasferire su carta emozioni e pensieri, risolvendo anche quelle esperienze spiacevoli immagazzinate in modo confuso e disfunzionale.
Ogni uomo fallisce a modo proprio ed è il fallimento a renderlo diverso da un altro essere umano. In questo essere diversi e raccontare il diverso o il fallimento si eleva la letteratura di Fabrizia Ramondino, accompagnata da un profondo stile autentico e raffinato e dalle riflessioni sulla società e sull’uomo. Il suo sguardo di donna, segnata da un costante senso di ribellione e dall’esperienza in prima persona del dolore, viaggia tra parole grondanti di dolcezza e di forza, in cui il lettore riesce a riconoscersi anche a distanza di anni. Tale modo di porsi nei confronti del mondo e delle persone non è mai distaccato, bensì completamente partecipato e attento alle forme concrete dell’esistenza e all’indagine psicologica. Il tesoro di Fabrizia Ramondino, anima che viaggia tra le anime e le attraversa è, purtroppo, ancora sprovvisto dell’adeguata considerazione. La grande eredità umana, consegnata ai posteri dalla Ramondino, parte dal presupposto che la fragilità va difesa e accudita, trasformandola in un punto di forza, e che la paura va sfidata: in tale senso, la scrittrice prende atto di quel travaglio insito nell’uomo e va oltre, cioè compie un superamento, insito nella forza della scrittura. Laddove la voce resta soffocata dal silenzio, è l’inchiostro, la scrittura a parlare, a elevarsi e a spiccare il volo. Si nasce, si vive, si muore: occorre custodire il coraggio di vivere e affrontare le guerre della vita, lasciandosi modellare dalle tortuosità, per poter dichiarare, negli ultimi bagliori di luce, come Alda Merini: «Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno. Per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara».
E se all’oblio il mondo t’abbandona, all’immobile terra dì: Io scorro
all’acqua fuggevole dì: Io sono[1].
[1] Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo, Milano, Feltrinelli, 1999.