Perché leggere “Mastro Don Gesualdo” di Giovanni Verga, l’uomo alla ricerca dell’avanzata sociale

Se I Malavoglia sono, a ragione, il capolavoro indiscusso del maestro e fondatore del Verismo, il romanzo Mastro Don Gesualdo ne è il naturale e degno proseguimento.

Scritto nel 1889, ambientato anch’esso nella sua amata Sicilia della prima metà dell’800, ci racconta di una realtà durissima, un’esistenza fatta di sofferenze e delusioni, un destino crudele che calpesta, prima o poi, tutti coloro che vogliono migliorare la loro vita.

L’assurdo e la contraddizione di un’intera esistenza, emblema di sofferenza ma anche di volontà di riscatto, è tutto già nel titolo, un ossimoro se vogliamo.

Mastro e Don sono antitetici di per sé, come miseria e nobiltà, fatica e sudore e umiliazioni contrapposti a privilegi per nascita, tracotanza e disprezzo per gli altri. Riassumono le illusioni e le false speranze del protagonista, e le ipocrisie di una società come quella siciliana dell’800, che finge di accettare, ma rifiuta con superbia, in modo sprezzante, e isola chi non ritiene all’altezza, chi tenta di progredire, chi lavora e col sudore pensa di potersi guadagnare un posto al sole per sé e i suoi figli nella società “che conta”.

È la stessa realtà descritta ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dove tutto deve cambiare per restare uguale, è purtroppo ancora, per certi versi, fatti i dovuti e necessari distinguo, l’immagine della nostra società. Una società aperta e democratica, dove però ancora, in certi ambienti, niente paga di più dell’essere “figlio di”.

Secondo e ultimo romanzo compiuto del Ciclo dei vinti, titolo rivelatore, Mastro Don Gesualdo fa parte di un rigoroso progetto narrativo del grande autore siciliano, teso a mostrare gli uomini mentre si affannano a salire gli scalini della scala sociale, per affrancarsi dalle loro miserie più o meno grandi. Ma la salita è dura e faticosa, e molto selettiva, così il progresso (chiamato tale) avanza inesorabilmente e implacabile lascia a terra e calpesta, metaforicamente, coloro che sono destinati ad essere sconfitti.

Ma gli uomini non rinunciano a questa folle corsa, attirati da una felicità che forse non esiste, una speranza che li attrae nell’intento di migliorare la loro esistenza.

In questa cieca avanzata anche loro, i protagonisti, mietono vittime, dimenticando i valori di solidarietà e comprensione, ferendo le persone più care. Il pianto di Diodata, la donna amata e abbandonata dal protagonista, disperata nella sua ineluttabile rassegnazione, che pensa alle sue creature, dimenticate da Gesualdo, perché figli illegittimi avuti da una povera contadina, zavorre inutili per un uomo impegnato a rincorrere il sogno di nobiltà e avanzamento sociale, è una delle pagine più vere, toccanti e tristi di tutta la letteratura italiana.

Nella sua tragica e cruda descrizione della società, il grande Verga ci invita a rivolgere uno sguardo diverso ai vinti di tutte le epoche, allora, a voler ben guardare, la storia di Mastro Don Gesualdo diventa la storia di ognuno di noi, la storia di tutti gli uomini, oggi vincitori e domani, chissà, sconfitti.

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