L’emergenza legata alla pandemia ha assorbito a tal punto l’opinione pubblica e l’interesse dei mezzi di informazione da provocare un calo generale di attenzione su altri temi e altre emergenze che sarebbe sbagliato, e talora pericoloso, sottovalutare. Una di queste è senza dubbio la mafia che notoriamente prospera e si nutre del disinteresse, del silenzio per non dire dell’omertà di cui ama circondarsi. Ecco perché vorrei parlarne un po’ qui e, come mi risulta spesso congeniale, prendere le mosse da un lontano fatto storico.
Nel 1902 la Corte d’Assise di Bologna condannò a trent’anni di reclusione l’onorevole Raffaele Palizzolo e Giuseppe Fontana, il primo quale mandante e il secondo quale esecutore materiale dell’omicidio, consumato l’1 febbraio 1893, di Emanuele Notarbartolo. Quest’ultimo, già sindaco di Palermo, era direttore generale del Banco di Sicilia e si avvide in poco tempo che la banca era sull’orlo del fallimento. Individuò la causa del dissesto nelle disinvolte operazioni che Raffaele Palizzolo, deputato palermitano della destra storica, effettuava in borsa, spesso tramite compiacenti prestanome, lucrando il profitto e lasciando alla banca le perdite. La rete di connivenze di cui il Palizzolo era circondato e che gli aveva assicurato l’elezione al parlamento aveva tutte le caratteristiche di un clan che, con il linguaggio di oggi, non esiteremmo a definire mafioso. Emanuele Notarbartolo entrò ben presto in rotta di collisione con il Palizzolo e il suo assassinio, consumato a bordo del treno sul quale Notarbartolo viaggiava di ritorno verso Palermo, fu ben presto collegato a quel preciso movente. Per la cronaca è doveroso aggiungere che entrambi gli imputati furono assolti nei successivi processi di Cassazione e di rinvio; tuttavia il giudizio della storia in larga misura differisce differisce da quello giudiziario e propende per la loro colpevolezza.
Ma non intendo rievocare compiutamente quel fatto, che fu il primo omicidio eccellente di stampo mafioso della nostra storia, per il quale rimando al prezioso ed esauriente saggio di Enzo Ciconte intitolato Chi ha ucciso Emanuele Notarbartolo; piuttosto voglio ricordare che dopo la condanna della corte bolognese, cui il processo era stato devoluto per legittima suspicione, l’opinione pubblica siciliana insorse ritenendo quella condanna un insulto e quasi un episodio di razzismo consumato dall’Italia del Nord contro quella del Sud. Fu una reazione violentissima: si parlò di lutto cittadino, si videro vetrine di negozi listate a lutto, si parlò della sentenza bolognese come di una minaccia dei socialisti “all’onore e alla santità delle istituzioni”. In altri termini l’opinione pubblica siciliana fu compatta nel sostenere una poderosa campagna innocentista e nell’affermare che la mafia non esiste e sarebbe frutto di un astratto quanto infondato teorema.
Oggi, fortunatamente, la percezione della pubblica opinione anche in Sicilia è profondamente cambiata. Non posso infatti dimenticare l’enorme folla che rese omaggio a Giovanni Falcone in occasione del suo funerale; ho sempre davanti agli occhi la grande scritta no mafia che campeggia sul piccolo edificio, visibile dall’autostrada, nel quale gli assassini azionarono il telecomando che fece esplodere la bomba di Capaci il 23 maggio 1992. Non posso neppure dimenticare il coraggio di un imprenditore come Libero Grassi che pagò con la vita il suo rifiuto a sottostare all’imposizione del pizzo e di un intellettuale come Peppino Impastato che sempre con la vita pagò il coraggio di continuare a dire la verità. Ricordo infine le manifestazioni di tripudio, non solo degli agenti di polizia ma anche di tanti comuni cittadini, che accompagnarono l’arresto dell’assassino Giovanni Brusca. Forse quelle manifestazioni erano eccessive e troppo chiassose, ma certamente denotavano il plauso di tanti di fronte a una grande vittoria riportata dallo stato nella lotta alla mafia.
Non posso tuttavia dimenticare alcune manifestazioni di segno diametralmente opposto cui ho dovuto assistere recentemente. Ricordo un pregiudicato della ‘ndrangheta, arrestato e condotto in manette fuori dal suo covo, inseguito da tante persone che si accalcavano per baciargli la mano. Ricordo i tanti “inchini” di fronte alle abitazioni dei boss durante le processioni religiose. E non posso dimenticare episodi in cui un’autentica folla ha circondato e protetto pregiudicati di mafia per impedire alle forze dell’ordine di trarli in arresto. Scene semplicemente disgustose, indegne di un paese civile.
Tutto ciò ci dice che la cultura della legalità ha fatto passi da gigante dai tempi di Notarbartolo e Palizzolo, ma permangono pericolose sacche di mentalità mafiosa che vanno assolutamente stroncate.
Il fronte “repressivo”, poliziesco e giudiziario, è ovviamente importantissimo, ma insufficiente. Bisogna agire sul fronte socio-culturale e instillare più che nei giovani nei giovanissimi la cultura della legalità. Fondamentali sono il ruolo della scuola e della famiglia, e quando quest’ultima professa una cultura di stampo mafioso la scuola non deve esitare a proporre modelli diversi, anche a costo di creare con la famiglia momenti di attrito e di contrasto.
D’altronde l’impegno poliziesco e giudiziario da un lato e quello socio-culturale dall’altro, lungi dall’essere antitetici, concorrono al conseguimento dello stesso risultato: infatti il crescere della cultura della legalità sempre più indurrà le persone a denunciare e testimoniare inficiando quel clima di omertà di cui da sempre la mafia si nutre e facilitando così l’opera degli inquirenti, mentre i colpi assestati alla mafia da polizia e magistratura sempre più condurranno l’opinione pubblica a schierarsi dalla parte della legalità.
Sarà un processo lungo e faticoso cui tutti noi cittadini, nella diversità dei rispettivi ruoli, siamo chiamati. Adempiamolo con impegno, ma anche con ottimismo, ricordando quanto ebbe a dire Giovanni Falcone secondo cui la mafia, essendo un fenomeno umano, non può durare in eterno e un giorno dovrà scomparire.