Reportage tra i contrasti della Federazione russa: un confronto storico tra la fine del comunismo con i recenti Mondiali di calcio.
A cura di Marcello Ciotti, storica ex voce di Rai radio 1 e Filippo Flamini
1991
È il 20 agosto del 1991: il giorno prima, Gorbaciov è stato arrestato in Crimea. Un paesaggio quasi spettrale mi accoglie: la strada dall’aeroporto al centro di Mosca è praticamente deserta. Gli incroci più importanti sono presidiati da uno o più carri armati. Tutto è immerso nel silenzio, e così sarà per alcuni giorni, con la capitale sovietica isolata dal mondo: niente aerei, niente treni, niente navigazione fluviale e tutti i negozi chiusi. La gente ricomincia ad uscire solo in occasione dei funerali delle tre vittime delle prime ore di blocco cittadino. Assisto ad un immenso corteo funebre di almeno un milione di persone (ma c’era chi diceva due o addirittura tre) e che si snoda in totale ed angosciante silenzio lungo le vie di Mosca. Nessun incidente, ma nessuno sa cosa potrà succedere. Nelle stesse ore, all’interno del Cremlino non c’è silenzio: i contatti tra le opposte fazioni si intrecciano, ci si interroga e alcuni credono di essere andati troppo lontano. Sarà poi Boris Eltsin ad agire, salendo su un carro armato, sventolando la bandiera della repubblica russa e diventando il simbolo del fallito colpo di stato dei “duri” del PCUS, il partito comunista sovietico.
E la vita riprende, ma l’URSS è ormai dietro le spalle. Via i pilastri della politica gorbacioviana, la perestrojka e la glasnost (ristrutturazione economica e trasparenza politica); via l’ingessato apparato dirigente, tanto che pochi giorni dopo a noi giornalisti è incredibilmente permesso assistere alla riunione del Soviet! Gorbaciov e gli altri big del Cremlino, concedono interviste a tutti! E la gente? Beh! la gente all’inizio non sa che fare, poi i più audaci prendono il sopravvento. E l’audacia consiste nel fare ciò che per più di sessant’anni era assolutamente inimmaginabile: così viene celebrata nella Cattedrale dell’Assunzione la prima Messa dai tempi di Stalin. Sotto una pioggia violenta, che trasforma il Cremlino in un lago, più di trecento fedeli fuori della chiesa, seguono inginocchiati e nell’estasi della ritrovata preghiera, il rito celebrato dal Patriarca Alessio Secondo. Poco dopo, nella piazza dove si erge il funesto palazzo della Lubianka ovvero la sede del KGB, si inizia ad abbattere il monumento a Djerzinskj, il fondatore della Ceka che poi diventerà, appunto, il KGB. Migliaia di persone assistono alla scena. Tra di loro, accanto a me, un uomo di circa 65-70 anni. Tramite il mio interprete , gli chiedo cosa prova. Dopo un agghiacciante silenzio, mi risponde:” Cosa provo? Sono nato col comunismo. Ho fatto la guerra: guardi quante medaglie mi hanno dato! Ho lavorato dove e come il partito mi diceva di fare. Ho fatto sacrifici di ogni sorta ! E oggi mi dicono che non era vero niente!! Ho buttato all’aria una vita, la mia vita!”.
E così , nell’amarezza e incredulità generali, piano, piano, torna la normalità a Mosca e in tutta quella che d’ora in poi tornerà ad essere chiamata Russia. Ma il prezzo pagato è stato enorme.
2018
“Vse za poltseny! Tutto a metà prezzo!”. La voce dei negozianti nella stazione ferroviaria di Leningradskij a Mosca mi accoglie all’arrivo da San Pietroburgo. Gadget e peluche del Mondiale di calcio sono in svendita in questo inverno. C’è aria di smobilitazione dopo la sbornia della competizione calcistica che ha fatto conoscere per la prima volta a milioni di persone il sub-continente russo. La capitale vive la sua solita giornata frenetica. Ho la brillante idea di prendere un taxi e rimanere imbottigliato in un traffico pauroso. È l’occasione per fare amicizia con il tassista, un certo Grieda. “La mia famiglia è a Niznij Novgorod, molto lontano. Ma durante la settimana lavoro a Mosca. Tutti vengono qui se si vuole lavorare e vedere il futuro”. Poi, con l’epicureismo tipico dei russi, ” Yesli my zhiviu, se vivremo”.
A farmi da guida in città una vecchia amica di penna conosciuta al tempo di uno stage al Cnr, Kristina. “La Russia è cambiata tanto”, mi dice. “Ero troppo piccola per ricordare la fine del comunismo, provavamo solo ansia ed eccitazione. Avevamo paura che ci sarebbe stata la guerra civile. Poi dal 1994 la cortina di ferro cominciò a cadere veramente e cominciarono a comparire prodotti americani: gomme, lecca-lecca, gallette di pollo in pacchetti speciali, patatine, jeans, sigarette, giocattoli e molto altro”. La città è una metropoli austera e imponente, immersa nel lavoro, nei suoi pensieri. Pochi i negozietti famigliari e imprese locali. Tutto fagocitato da catene di fast food e dalla modernità. “Il nostro popolo si reggeva sul quel senso di appartenenza famigliare, il riunirsi intorno agli anziani. La comunità, il desiderio di aiutarsi è scomparso. Tutti vivono per loro stessi in questa città”. Città, che è poi anche Paese. Tutto ruota da e in funzione della capitale. Il resto è un’appendice difficile e dipendente da essa. “E riguardo il vostro Zar, Putin? Ha molti estimatori in Italia”, le chiedo. Scopro che non è saggio pronunciare il suo nome in luoghi pubblici, così come in chat o via mail. Tutto è controllato a livello telematico. “Non ci piace, non credete a quello che filtra. C’è una grande differenza tra ricchi e poveri…o molto ricchi. Il livello di corruzione è cresciuto, il livello di fiducia nelle autorità, nella polizia e nei giudici è diminuito al minimo. I russi non si sentono protetti. Siamo liberi nella misura in cui ce lo consentono. Stanno cercando con forza di rianimare il patriottismo nelle giovani generazioni”. Eppure mi guardo intorno e vedo un Paese moderno, europeo. E allora mi porta a Prospect Mira, un lungo e anonimo viale che collega la parte settentrionale della città. Lontano dai luoghi per turisti, la Russia vera di file interminabili malinconiche, a volte squallide, di palazzine sovietiche. E sfugge a ogni tentativo di spiegazione. Il contrasto con le cupole d’oro, i busti dei leader della dittatura, lo sfarzo delle boutique è tangibile. Accade forse quando c’è troppa storia, troppa sofferenza, troppa voglia di riemergere: una società esplode in mille direzioni. “Qui in periferia c’è la gente vera. Qui si lotta tutti i giorni per emergere e avere un domani. Yesli my zhiviu”, mi dice. “Se vivremo”, mi dice.