Di seguito l’intervista a Salvatore Santangelo – giornalista professionista e docente universitario – co-autore (con Piero Visani) di questo interessante saggio. Grazie alle sue parole, potremo comprendere quale sia il fine della pubblicazione di questo nuovo volume su Napoleone e quale, soprattutto, l’attualità del personaggio.
Professor Santangelo, grazie per aver accettato il nostro invito a raccontare ciò che sta dietro alla pubblicazione del saggio “Il volo dell’aquila”. Perché oggi, in un mondo in cui i leader vivono di parabole ascendenti e discendenti, dovremmo parlare di Napoleone?
Questo volume tenta di rappresentare quasi “fotograficamente” la storia del grande conquistatore-amministratore, morto 200 anni fa, e lo fa attraverso 50 episodi che cercano non solo di ricostruire uno dei periodi centrali della modernità, ma di restituire un’atmosfera carica di passione, di ambizione e smisurato coraggio fisico. Il Romanticismo avrebbe cercato i suoi eroi nel Medioevo, in realtà ne avrebbe visti nascere di esemplari al tramonto dell’epoca dei Lumi. Il libro è composto da tre parti. La prima è un’introduzione, in cui si fa il punto proprio sull’estrema modernità della figura di Napoleone, dell’esperienza del “Bonapartismo” e, in qualche modo, anche di una costante geopolitica che ha accompagnato gli ultimi due secoli e mezzo della storia del nostro Continente. Il volume vuole aiutare il lettore a dare un’interpretazione della figura di Napoleone liberata da quei riferimenti che si userebbero al giorno d’oggi. È assurdo pensare di giudicare determinate esperienze storiche con i parametri o le matrici valoriali contemporanee: standard moderni, post-identitari e immersi in un’atmosfera relativista. Questo è, sicuramente, il punto di partenza e il primo tema de Il volo dell’aquila. Poi, ovviamente, Napoleone ci rimanda all’utopia di unificare il Continente. Non è un caso se un grande storico militare tedesco come Hans Delbrück – nel proprio testamento politico – rivolgendosi ai propri compatrioti li scongiurava di non seguire il suo esempio, perché l’Europa non si sarebbe mai fatta unificare sotto il giogo militare di un’unica potenza. È partito anche da qui il tentativo che i nostri Padri hanno cercato di mettere in atto – dopo la Seconda guerra mondiale – di costruire questo spazio di coesistenza pacifica che oggi chiamiamo Unione Europea.
Altro aspetto fondamentale è il rapporto tra il capo e le masse: Napoleone ha inaugurato un vero e propria sistema, per certi versi molto simile al cesarismo ma contaminato dalla modernità. Bonaparte ha potuto contare sui primi mezzi di comunicazione di massa, sui primi quotidiani e sui primissimi strumenti di sondaggio e controllo dell’opinione pubblica; tutto ciò ha amplificato questa dinamica, cioè il rapporto disintermediato tra il capo e le masse, rendendo questo modello di un’incredibile attualità. Si consideri, infatti, che la politica contemporanea è basata tutta su questa disintermediazione; quindi studiare Napoleone significa anche esplorare angoli oscuri e problematici della nostra contemporaneità.
Napoleone ha vantato enormi successi nella sua carriera. Tuttavia la campagna di Russia ha spento le ambizioni napoleoniche e ha segnato il punto di svolta nel suo percorso: la Grande Armata fu distrutta. Mutatis mutandis, quella che aveva Napoleone non è un po’ l’ambizione dell’Occidente di oggi? Mi spiego meglio: mettere a tacere l’ascesa russa e soffocarne l’avanzata economica e strategica. Lei ha descritto benissimo la Russia e le sue pretese nel saggio GeRussia. Non crede che possano ravvisarsi delle somiglianze, pur con le differenze dei tempi?
Sintetizzerei così queste riflessioni: l’Anglosfera – fedele al suo principio strategico di impedire la creazione di un’unica potenza al di là della Manica – non sfida mai frontalmente la potenza emergente (prima la Francia Napoleonica e poi la Germania) ma ne consuma la forza nelle periferie (la Campagna peninsulare, i Balcani, il Mediterraneo) per poi creare le condizioni di uno scontro tra questa (già sbilanciata e dissanguata dalla dispersione delle forze in teatri periferici) e la Russia. Una dinamica che ha generato sempre uno stesso esito e di cui riconosciamo appunto la valenza: uno schema è uno schema e non possiamo non considerarne le implicazioni.
Il modo di fare guerra è cambiato. La tecnologia, pur con l’intento di ridurre il dispendio di vite umane, non elide le esigenze da parte degli Stati di guerreggiare. Oggi si attacca tanto con l’uso di droni, quanto con l’invio di lupi solitari che si fanno esplodere in mezzo alla folla civile. Perciò, la guerra è multiforme. Cavalleria, fanteria, granatieri sembrano superati. Cosa ha lasciato Napoleone in eredità in termini di strategia militare e schieramento degli eserciti?
La guerra è sempre stata un fenomeno camaleontico, in grado di assumere forme e modalità differenti a seconda delle circostanze storiche e ambientali in cui deflagra. La grande lezione napoleonica – parafrasando Hannah Arendt – è che «La guerra non restaura diritti ma ridefinisce poteri».