C’è un certo contrasto tra la tipologia delle opere in esposizione al MAXXI e la mostra di Paolo Pellegrin. Il MAXXI è una continua stimolazione sensoriale, che presenta colori vividi, insegne al neon, percorsi che non mancano di rumori (e vapori); viceversa, l’ingresso alla mostra di Pellegrin è concepito come un richiamo alla concentrazione, un invito a lasciarsi alle spalle i colori vividi e ad entrare in un universo di chiaroscuri, letteralmente: l’allestimento alterna, infatti, la luce, ombra e penombra. Menzione d’onore per l’organizzazione: viene fornito un booklet preciso e sintetico, che fornisce informazioni di contesto su ogni fotografia, aiutando il visitatore ad andare oltre la semplice constatazione che le immagini sono splendide e significative: si tratta di un enorme valore aggiunto, di una volontà di raggiungere la coscienza del visitatore, di inviare messaggi potenti. D’altronde, non sarebbe possibile comprendere pienamente le foto senza qualche indicazione di contesto: Pellegrin non si limita al fermo immagine o alla ricerca della immagine iconica; il suo approccio è quello di chi racconta storie antropologicamente e umanamente consistenti, che si svelano parzialmente nell’immagine e si completano a vicenda, come in un tessuto narrativo costituito da fotografie.
Il mare della Libia, la coperta termica di Lesbo, la bellezza del Mar Morto, tanto intensa e malinconica da far desiderare un aereo a portata di mano, ma anche il dolore della morte o il peso della povertà, e non in un solo luogo; dagli archivi del fotografo emergono storie di peshmerga curdi e prigionieri dell’Isis, di criminali di Miami e famiglie povere negli States, di confini a El Paso e famiglie rom che vivono a Roma.
Ciò che più conta, Pellegrin si apre completamente e rende evidenti le dinamiche del suo processo creativo: sono in mostra i suoi taccuini, non solo appunti veloci, ma laboratori di progettazione in miniatura, con riproduzioni stilizzate delle immagini scattate. Qualche taccuino diventa un portfolio tematico: quello dedicato a Giovanni Paolo II e al suo funerale presenta un lavoro diverso rispetto ai classici reportage di un evento così famoso, perché c’è una sola foto della bara che tutto il mondo ha visto, mentre ci sono innumerevoli ritratti che colgono il dolore anonimo dei presenti, le lacrime della commozione e il senso della storia ben presente sui loro volti.
D’altro canto, le sofferenze di altri popoli, che Pellegrin analizza e rielabora, generano un dubbio amletico: si finisce per chiedersi se abbiamo il diritto, noi occidentali, di appropriarci di storie così intense che non appartengono a noi, ma a chi ha ancora qualcosa di concreto per cui combattere. Le prendiamo, però, e le trasformiamo in una forma di arte che sia testimonianza e che generi il desiderio di combattere per qualcosa che sembra non servirci nemmeno più, anche solo per non sentire di aver rubato ingiustamente la bellezza dolorosa di chi resiste, per meritarne almeno un dignitoso pezzettino.