– Ho fatto la seconda dose di vaccino – Quale? – Moderna. – Ah, bene, io AstraZeneca. Più o meno così ogni conversazione iniziata negli ultimi due mesi. Sta diventando nauseante. (Per fortuna che la mia misantropia mi trattiene dall’intraprendere quei riti fasulli e inutili.) Ma, dicevo, ho fatto il vaccino. E a seguito della conferenza stampa che ha preannunciato le misure contenute nel decreto legge Covid in vigore dal 6 agosto, sono combattuta. Sì, tra rassicurazione personale e rabbia collettiva. Perché una delle misure principali, e più restrittive, è il discusso green pass.
Insomma, il codice che permetterà agli italiani di partecipare alla vita pubblica. E per ottenerlo è necessario aver fatto la prima dose dopo almeno quindici giorni, la seconda dopo due giorni, così come un tampone fatto entro le quarantotto ore. Ecco che allora vivo di contrasti, su due livelli, uno personale ed egoistico, l’altro morale e collettivo. Sarò più tranquilla a uscire? Certo, i rischi di contagio saranno ridotti e le probabilità di ammalarsi gravemente sono basse. Il green pass è uno strumento di esclusione sociale? Sì, considerando che saranno favoriti i vaccinati ai tamponati, vista la semplicità e la gratuità della campagna vaccinale, nonostante il prezzo calmierato (non si sa ancora di quanto) dei tamponi dal 6 agosto.
In questa dicotomia, Hegel mi insegna che dovrei abbandonare il mio egoismo per la realizzazione del bene comune, per la comunità, e, quindi, per lo Stato. Sì, ma la vera domanda è: schierarsi contro il green pass è per il bene comune? Non è invece una misura che ci aiuterà a contenere i contagi, e, così, a tutelare la salute pubblica? E alla fine torniamo sempre qui, all’Articolo 32 della nostra Costituzione: la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. E, diciamocelo, Hegel, qui non sarebbe d’accordo con i padri fondatori. Perché, lo Stato deve garantire, agli italiani, prima come individui e poi come collettività, il diritto alla salute. Potrei sentirmi più serena, come svuotata di quel senso di colpa per essermi sentita privilegiata di avere il green pass. E volerlo sfruttare come si deve. Ma non lo sono. Perché, nonostante mi consoli tra le righe della Costituzione, polemica d’animo come sono, non posso non mettere in discussione questo assoluto, al quale i rappresentanti del Governo si sono aggrappati da inizio pandemia a oggi; non posso girare la testa dall’altra parte; non posso evitare le manifestazioni non autorizzate in un weekend torrido di fine luglio.
Manifestazioni indette dalla rabbia, piuttosto che da un pensiero informato; dalla rabbia di quegli italiani che hanno perso la fiducia già da prima dell’emergenza, e che si sono sentiti esclusi, traditi, lasciati soli dalle istituzioni durante la pandemia. E non è vero che in questo anno e mezzo abbiamo ritrovato il senso di comunità. Perché, se lo avessimo fatto, oggi non staremmo qui, a parlare, discutere, dividerci tra l’obbligatorietà vaccinale e la libertà di scelta individuale rispetto a un’emergenza che ha piegato il Paese come collettività. Quindi capisco la rabbia, la frustrazione, di chi, con l’ultimo decreto Covid si sente escluso. Ma non è così. Leggiamo di paragoni all’apartheid sudafricana, o alle leggi razziali di epoca fascista. Ma c’è una differenza, che fa tutta la differenza: le limitazioni – e non, come invece viene estremizzato, esclusioni – non sono fatte su base etnica; o meglio, l’accesso ad alcuni luoghi della vita pubblica sarà limitato a chi, non per chi è, non per le sue radici, sceglierà di mettere le proprie convinzioni, confutabili, prima del rispetto della comunità. Perché dobbiamo ricordarlo: viviamo, sì, in una società individualistica, ma la Nazione è di per sé espressione di un consenso comune, basato sul rispetto dell’altro, e quindi, sulla protezione di chi abbiamo vicino. E questo è sancito dalla Costituzione italiana. Che, forse, vale la pena rileggere.
Di certo, non posso risolvere il dilemma, ma posso prendere una posizione. E, adesso, ce l’ho. Ho fatto la seconda dose di vaccino. E sono serena. Mi sento più sicura, per me, in primis, e per chi mi sta vicino. E ho il green pass. Adesso ho la possibilità, come tanti altri connazionali, grazie alla mia scelta, libera, di tornare a godere dei momenti che il Covid-19 mi ha levato per troppo tempo. Ero stanca di vivere con l’ipocondria. Vaccinarmi è stata una scelta egoistica, lo ammetto, ma liberatoria. Non condanno chi ha dubbi, che è lecito, naturale, è proprio del nostro animo dubitare di ciò che è ancora troppo nuovo. Ma, a quasi due anni da un’emergenza che, ormai, ci è entrata sotto la pelle, la voglia di uscirne, insieme, dovrebbe essere unanime. E dispiace che non sia così; dispiace vedere la rabbia prendere il sopravvento; dispiace dover spiegare che questo scontro tra pari è improduttivo, che stiamo ritardando la ripartenza; dispiace vedere sui social frasi di Primo Levi fuori contesto, così a caso, tanto per avvalorare la tesi di una lenta e progressiva normalizzazione di una retromarcia liberale inesistente. Ecco, sono dell’idea che, chi vede nel green pass, e in una possibile obbligatorietà vaccinale, uno strumento liberticida, non ha appreso a pieno – per non dire per niente – l’essenza della nostra Costituzione, della nostra convivenza, basata sul rispetto e la tutela reciproca.