A quasi 6 anni dagli Accordi di Parigi, le grandi banche d’affari hanno investito in progetti riguardanti combustibili fossili oltre 3,6 trilioni di dollari – stando a Bloomberg (qui il reportage) – e solo da quest’anno hanno invertito la tendenza e cominciato a preferire le fonti energetiche rinnovabili.
Dopo anni in cui i prestiti globali erogati ed obbligazioni in investimenti in fonti energetiche tradizionali hanno registrato volumi almeno 3 volte eccedenti quelli dei progetti green, il 2021 segna una storica inversione di tendenza: Bloomberg stimava a metà maggio 203 miliardi di dollari in prestiti ed obbligazioni green contro 189 miliardi in equivalenti in idrocarburi (ca. 1 a 1) su un campione di 140 intermediari finanziari globali; sebbene nel 2020 si fosse sovvenzionata energia rinnovabile per circa 100 miliardi in più, i finanziamenti per gli idrocarburi raggiungevano i 700 miliardi (ca. 1 a 7).
Giro di boa epocale?
Di sicuro grandi investitori istituzionali non invertirebbero una tendenza consolidata da decenni senza valide e profittevoli motivazioni: notoriamente, investire nel carbon fossile vuol dire sovvenzionare i progetti di imponenti gruppi, alcuni con oltre un secolo di storia; di contro, le rinnovabili cominciano ad essere profittevoli solo adesso dopo decenni di sperimentazioni, con potenziali sviluppi (vedi l’idrogeno che è tornato in auge) ancora da definirsi nel lungo termine. Essenzialmente, finora le banche avevano preferito una redditività degli investimenti sicura ed a più breve termine: 17 miliardi da commissioni dal 2015 per finanziamenti verso il fossile contro 7 garantiti da progetti green.
Negli ultimi due anni l’attenzione globale al cambiamento climatico ed allo sviluppo delle rinnovabili è diventata centrale, e ciò ha contribuito al cambio di strategia dei finanziatori: le politiche del Presidente Biden, i target di zero emissioni nette di UE (entro il 2050), Sud Corea, Giappone e Cina, l’impegno del fondo d’investimento BlackRock (il più grande al mondo) ad investire nella sostenibilità di lungo termine (qui la lettera del suo AD), l’indicatore Green Asset Ratio con cui l’Autorità Bancaria Europea incentiverà dal 2022 le banche a misurare il volume degli investimenti in progetti ecologici sul totale dei finanziamenti erogati.
Le banche d’affari non possono non cogliere i segnali di un cambiamento sui mercati.
E sui nuovi trend sono in primis reattivi i grandi attori: JPMorgan, la più grande banca USA, ha finanziato secondo Bloomberg più di ogni altro competitor gli idrocarburi negli ultimi anni (256 miliardi dal 2016), ma nel 2021 della svolta guida il trend degli investimenti green con 10 miliardi di dollari, pur continuando a finanziare per il medesimo importo progetti di fonti tradizionali. Seguono a ruota gli investimenti green di Citigroup (poco meno di 10 miliardi, ed unica banca in cui il green supera di poco gli investimenti in combustibili fossili) e Bank of America tra i 7 ed i 9 miliardi. Solo nel 2020 questi istituti finanziavano il green per circa la metà di quanto garantito a progetti per fonti inquinanti. Nel 2015 i finanziamenti in energia pulita potevano definirsi addirittura embrionali.
Proprio JPMorgan, Citigroup e Bank of America guidano, inoltre, un progetto tra le grandi banche americane che mira ad erogare finanziamenti ecologici per almeno 4 trilioni di dollari nel prossimo decennio.
La transizione ecologica globale dev’essere svolta in fretta e necessita ingenti finanziamenti su scala globale; è infantile pensare di poter compiere un tale sforzo senza i mercati dei capitali. D’altro canto, ciò che rassicura dai pericoli di un banale “greenwashing” è l’orizzonte di lungo termine degli impegni sul finanziamento globale delle rinnovabili presi dalle banche e la pressione su di esse esercitata dall’agenda politica globale.