La cultura in Italia è stata per decenni un settore completamente dipendente dalla spesa pubblica, ragione per cui il dicastero dei beni culturali risulta essere un coacervo di interessi che spesso esulano dalla semplice attenzione ad un settore che potrebbe portare lavoro e sviluppo nel nostro Paese, al ministero “economico” più importante d’Italia, per usare le parole di Dario Franceschini. Tale preambolo è necessario per dare, se non una giustificazione, quanto meno una spiegazione alle posizioni estremamente caute di Alberto Bonisoli, ministro in quota pentestellata del Ministero dei Beni Culturali. Il capo del dicastero sembra studiare, valutare con attenzione le sue mosse per cercare di sciogliere i nodi irrisolti di una gestione, molto spesso personalistica, dei beni culturali. Le dichiarazioni rilasciate dal ministro in materia di riforme sono state troppo timide per convincere, troppo generiche per poter creare un’opinione, troppo poco chiare nelle loro linee guida. Evanescenza che ha fatto infuriare gli operatori del settore, esasperati da anni di mala gestione, da riforme con esiti incerti (ndr “seconda fase della riforma Franceschini”), da convenzioni siglate nel 1992 e ratificate soltanto nel 2015 (Convenzione de La Valletta).
Chiarezza, quello che si chiede al ministro dei Beni Culturali. Fumose dichiarazioni, le uniche cose ottenute fino ad ora. Se da una parte può lasciare perplessi anche la gestione delle pagine social del ministro Bonisoli, riecheggianti di esternazioni incomprensibili per una figura che potrebbe brillare per competenze specifiche, dall’altra, cosa ben più grave, non traspare neppure quale sia la linea intrapresa, la visione complessiva, l’idea di governance e di polita culturale. Significativo, in tal senso, come l’argomento che più si è dibattuto è quello relativo alle prime domeniche del mese gratis che prima sembrano essere soppresse, poi il ministro ritratta lasciando ai direttori la possibilità di decidere quando e come stabilirle, togliendo forza e vigore ad una comunicazione unica ed efficace per tutto il territorio nazionale.
Bonisoli l’ha sottolineato a più riprese: dal 2019 al Mibac è previsto un piano massiccio di assunzioni. Non è tardata la risposta del presidente dell’Associazione Nazionale Archeologi, Salvo Barrano, che chiosa “vediamo con favore questa intenzione del ministero di assumere personale ma a due condizioni: la prima è che non si faccia un mega concorso dove si buttano tutti dentro a prescindere dalle competenze, per poi lasciare il ministero bloccato per lustri.”
Ancora, nessuna traccia di nuovi accordi internazionali, di provvedimenti in materia fiscale, nessun piano di riforma per il sistema museale e le soprintendenze. Al momento nel dicastero economico più importante tutto tace. E la domanda sorge spontanea: rispetto all’operato di Franceschini, sarà rottura radicale o continuità?
Il tanto millantato cambiamento, slogan politico del governo giallo- verde, sembra avere nel ministero del Beni culturali una battuta di arresto, un’indecisione che potrebbe costare cara all’immagine del capo del dicastero. Auspicabile, quindi, per l’improbabile entourage del governo Conte: lavorare, riformare, innovare. Tentando di riporre, almeno per questa volta, il comodo ombrello della propaganda.